22 anni fa è stata chiusa la centrale di Chernobyl: ma cosa accadde davvero nell’86?

Oggi, 15 dicembre, sono esattamente 22 anni che anche il reattore numero 3 della centrale di Chernobyl, cioè l’ultimo rimasto in vita fino al 2000, è stato spento. Ma cosa accade realmente la notte del 26 aprile del 1986?

Chernobyl
Chernobyl – Nanopress

Era il 15 dicembre del 2000 quando la centrale nucleare di Chernobyl fu spenta definitivamente. Circa 14 anni prima, il 26 aprile del 1986, si era verificato il disastro peggiore di tutta la storia. Ecco cosa accadde davvero quella notte.

Il disastro di Chernobyl

26 aprile 1986. Sono le ore 1:23 precisamente e quello che sta per accadere si preannuncia il più grande disastro mai verificatosi in tutta la storia in una centrale nucleare, tanto da essere definito dalla scala internazionale degli eventi nucleari e dai radiologici dell’Aiea – l’agenzia internazionale per l’energia atomica – evento catastrofico di livello 7, che è il più alto in assoluto, attribuito solo ad un altro caso, quello della centrale di Fukushima in Giappone l’11 marzo 2011.

Siamo nella centrale nucleare di Chernobyl – che in realtà si trova a 18 chilometri circa dalla città e a tre da Pripyat, nell’area settentrionale di un’Ucraina ancora appartenente all’Unione Sovietica (cosa che oggi, con il conflitto in atto, fa quasi sorridere) – e sono in corso dei test di sicurezza su uno dei quattro reattori, esattamente il numero 4. Questi sono finalizzati ad ottenere l’omologazione definitiva dell’intero impianto, che equivale a dire che sono atti a constatare che è possibile, anche in caso di blackout elettrico, alimentare le pompe del sistema di raffreddamento mediante elettricità prodotta dal movimento inerziale delle turbine. Non sono questi i primi test: ne erano stati fatti ben tre nel 1982, ma avevano avuto tutt’altro esito, perché nulla era accaduto.

Sul test incriminato di aver causato l’incidente, però, c’è da fare una doverosa precisazione. Non era previsto per quella notte, ma era previsto per il pomeriggio del 25 aprile. Fu posticipato di ben dieci ore che, tradotto, significa che la squadra che avrebbe dovuto farlo aveva già terminato il turno e ne era subentrata un’altra, che ovviamente non era affatto preparata a condurlo. A quel punto, il tragico incidente.

Cercheremo di spiegare quello che accade esattamente in quei minuti perché possa essere comprensibile a tutti. Nei giorni antecedenti al test, la potenza del reattore fu abbassata (probabilmente per renderlo possibile e “sicuro”). Durante lo stesso, poi, questo venne sollecitato tanto da rendere i suoi livelli instabili: la sua potenza si abbassò decisamente troppo fino ad oltrepassare cioè persino i limiti di sicurezza (e questo fu causato anche dall’avvelenamento da xeno, che mascherava la reale attività del reattore). Il team che stava conducendo il test – che ricordiamo ancora una volta che non si era preparato a dovere per l’evento – a quel punto decise di contravvenire alle regole: avrebbe dovuto, infatti, interrompere tutto e spegnere il reattore, attenendosi così al protocollo di sicurezza, mentre invece pensò bene di aumentare la potenza ed estrarre quasi tutte le barre di controllo (che in pratica costituiscono il primo sistema per arrestare il reattore in caso di necessità). Il reattore a quel punto divenne ancora più instabile, troppo per poter continuare. E così ai tecnici non rimase che una scelta: spegnere tutto istantaneamente tramite la procedura SCRAM – cioè un arresto di emergenza – che si attivò attraverso il pulsante AZ-5.

A quel punto vi è un buco storico che nessuno è riuscito a ricostruire precisamente, ma tra le varie versioni divergenti, quella più accreditata pare dirci che, mentre il team mise in atto la procedura di spegnimento istantaneo, in realtà il reattore non solo non si spense realmente, ma iniziò a guadagnare ulteriore potenza (tra l’altro in modo eccessivamente rapido) fino a superare di gran lunga i limiti di sicurezza. Verosimilmente il problema di fondo era un difetto delle succitate barre, che fece surriscaldare tutto il sistema improvvisamente, tanto che in pochi secondi la potenza del reattore superò addirittura i 30 GW (10 volte il massimo previsto cioè). Questo a sua volta generò una massiccia dose di gas, la cui pressione causò l’esplosione, che spazzò via letteralmente il coperchio del reattore (e basti immaginare quanto potesse pesare, essendo composto da cemento e acciaio) e lasciando quindi la centrale “scoperta”. A quel punto partì una seconda esplosione, causata dalla combustione dell’idrogeno e della polvere di grafiti che fuoriuscirono dal reattore. L’edificio era già completamente distrutto e la grafite prese fuoco, incendiando anche le strutture adiacenti e facendo disperdere nell’ambiente isotopi radioattivi.

Una precisazione va fatta però: questa non è stata una vera e propria esplosione nucleare (come ad esempio accadrebbe nel caso del lancio di una bomba atomica), ma è una reazione conseguente alla pressione del vapore divenuta incontenibile a causa dell’aumento improvviso della temperatura del nocciolo (cioè il nucleo) del reattore. C’è quindi una differenza sostanziale, ma anche in questo caso, dopo il divampare della fiamme, era ormai emergenza radioattività e c’era davvero ben poco da fare, in tutti i sensi.

Chernobyl
Chernobyl – Nanopress

Questo perché in seguito all’incendio comparve una nuvola piena di materiale radioattivo, che invase letteralmente tutta la zona vicina alla centrale. In totale ben 336mila persone furono costrette ad evacuare – di cui 47mila solo dalla città di Prypiat – ma il dato più triste è che tutte non avrebbero mai più rivisto le loro case.

Il post-esplosione

Qui subentra un altro problema: il vento – che non si può placare in nessun modo per ovvi motivi – spinse la nuvola a chilometri di distanza. Questa in pratica fece letteralmente il giro dell’Europa: arrivò in pochissimo tempo in Bielorussia, nei Paesi Baltici, in Svezia, in Finlandia, in Polonia, nella Germania settentrionale, in Danimarca, nei Paesi Bassi, nel Mare del Nord e nel Regno Unito. Successivamente continuò a “girare”, arrivando – tra il 29 aprile e il 2 maggio – in altri Paesi, tra cui ricordiamo Cecoslovacchia, Ungheria, Jugoslavia, Austria, Italia settentrionale e centrale, Svizzera, Francia sud-orientale, Germania meridionale. Ma non finisce neanche qui, perché quel cumulo di materiale radioattivo nei giorni seguenti – cioè precisamente tra il 4 e il 6 maggio – tornò prima verso l’Ucraina, poi raggiunse la Russia Meridoniale e poi si iniziò a dirigere verso la Romania, arrivando in Moldavia, nei Balcani, in Grecia e in Turchia. Tutto continuò fino al 10 maggio, lo stesso giorno in cui a Roma ben 200mila persone decisero di scendere in piazza e ribellarsi a quanto accaduto, tanto che poi circa un anno dopo ci sarà il referendum per l’abolizione dell’energia nucleare in Italia.

Chiaramente – ed è molto facile intuirlo – tutte queste nazioni sono state contaminate gioco forza. Ma il problema principale è stimare il numero vero delle vittime: negli anni sono comparsi rapporti del tutto diversi tra loro. Basti pensare che alcuni parlano “solo” di decine di morti, mentre altre di centinaia di migliaia addirittura. Ad oggi, quindi, è difficile poter parlare di una cifra, anche solo orientativa.

Ci ha provato l’ONU nel 2003 – quindi ben 17 anni dopo l’accaduto – a farlo, in un incontro chiamato Chernobyl Forum, a cui presero parte istituzioni come l’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità –  gli Istituti superiori di Sanità di Russia, Bielorussia e Ucraina, la Fao (Food and agriculture organization) e tanti altri. Durante questo evento si decise di dare i numeri (nel senso letterale del termine), fino ad arrivare a stabilire che le morti certe fossero 65 – a cui si devono aggiungere comunque i quattro pompieri morti a causa della caduta dell’elicottero su cui viaggiavano per placare l’incendio – ma che in realtà 19 vittime persero la vita solo anni dopo (cioè a partire dal 1987) a causa di un tumore alla tiroide causato proprio dalla nuvola radioattiva. Fu lo stesso Chernobyl Forum, però, ad ammettere che in effetti potrebbero esserci addirittura altre 4mila morti a causa di tumori sempre riconducibili al disastro in un arco temporale di 80 anni dal 1986 (quindi ci siamo dentro ancora oggi), anche se ovviamente è e sarà difficile stabilire con chiarezza cosa abbia causato queste malattie.

A parte l’ONU comunque dobbiamo precisare per dovere di cronaca che un altro rapporto stilato dal Partito Verde Europeo ha parlato di un numero compreso tra 30 a 60mila decessi, mentre Greenpeace ha parlato addirittura di un numero di vittime compreso tra le 100.000 e le 270.000, stimando addirittura che a livello globale ci potrebbero essere ben 6 milioni di morti connesse al disastro, sempre per tumore.

C’è da dire che negli anni immediatamente successivi al disastro, molte persone sia militari che civili – chiamate i “liquidatori” e provenienti da Bielorussia, Russia e Ucraina – vollero in qualche modo rimettere in sesto tutta la zona, rimuovendo detriti, decontaminando l’area. A loro è stata consegnata una medaglia al valore, insieme a diversi certificati, peccato però che quelle azioni misero a repentaglio seriamente la loro salute: lavorare a stretto contatto con residui radioattivi è pericolosissimo. E pensiamo che alcuni di loro rimossero addirittura i blocchi di grafite per gettarli – con le mani – nel punto in cui era stato stabilito che venisse seppellito anche il reattore incriminato. La loro esposizione alle radiazioni, quindi, fu elevatissima. Furono loro ad occuparsi della costruzione del sarcofago – che altro non è che una struttura in cemento e acciaio sotto cui si trova il reattore numero 4 – che serviva quindi per evitare che l’ambiente potesse continuare ad essere contaminato. Vi erano infatti ben 180 tonnellate di combustibile, del pulviscolo radioattivo e 740mila metri cubi di macerie contaminate da contenere. Eppure nella struttura, nonostante fosse molto imponente, si sono aperte molto spesso nuove falle, di cui una risale al 2013 e fu causata dal peso della neve, tanto che circa sei anni fa si è pensato di sostituirla con una più sicura.

Ma cos’è accaduto dopo dal punto di vista giuridico? Nell’agosto dell’86, quindi circa quattro mesi dopo il disastro, si tenne un processo a porte chiuse, che portò al licenziamento di 67 dipendenti, all’espulsione dal Partito Comunista di 27 persone e alla condanna del direttore della centrale, Viktor Bryukhanov, dell’ingegnere capo Nikolai Fomin – entrambi accusati di negligenza criminale e quindi costretti a dieci anni di lavori forzati – ed anche del vice ingegnere capo Anatoly Dyatlov, del capo della vigilanza Boris Rogozhkin per abuso di potere – condannati entrambi a cinque anni di lavori forzati – ma anche del supervisore Alexander Kovalenko e dell’ispettore Yuri Laushkin, che hanno dovuto scontare rispettivamente tre e due anni. In realtà però si fece chiarezza definitivamente sull’accaduto – sempre dal punto di vista legale, si intende – solo cinque anni dopo, cioè nel ’91, quando fu il succitato Bryukhanov ad essere ritenuto risponsabile dell’accaduto, insieme a chi aveva costruito il sito. A queste condanne comunque si sommano le cause civili, che hanno permesso a 7 milioni di persone di ricevere un risarcimento per i danni subiti.

Ma, come abbiamo anticipato, la centrale nucleare di Chernobyl fu chiusa definitivamente solo il 15 dicembre del 2000. Cos’è accaduto dal 1986 a quella data? Il governo decise di mantenere attivi gli altri tre reattori, così da continuare a fornire energia al Paese. Quello che accadde nel ’91, però, scosse tutti: un altro reattore – il numero 2 questa volta – si incendiò e la fiamme lo danneggiarono al punto da renderlo inutilizzabile. Una sorte analoga – al netto del rogo, parliamo solo di chiusura – toccò cinque anni dopo circa anche al numero 1. Era rimasto quindi “in vita” solo il reattore 3, che però il presidente ucraino Leonid Kučma decise di spegnere definitivamente (in diretta tv tra l’altro) nel 2000 appunto. 

Vale la pena però parlare anche delle conseguenze sull’ambiente del disastro di Chernobyl Innanzitutto ancora oggi, 36 anni dopo l’esplosione della centrale nucleare, Pripyat, è una vera e propria una città fantasma. Sia la flora che la fauna ancora oggi portano i segni delle radiazioni. Proprio qui sorge la cosiddetta Foresta Rossa, che altro non era che un bosco di pini diventato rosso e poi morto del tutto e sempre qui moltissimi animali hanno manifestato malformazioni genetiche, i cui effetti sono ancora presenti. Basti pensare che alcuni studiosi hanno preso in esame 40 specie di uccelli ed hanno notato una riduzione delle dimensioni dell’encefalo, cosa che potrebbe rendere la loro vita più breve e comunque causare loro una riduzione della capacità cognitive.

Abbiamo poi sentito parlare nuovamente di Chernobyl proprio quest’anno, precisamente il 24 febbraio, quando le truppe russe hanno invaso la zona e la gente del luogo ha temuto il peggio. I bombardamenti hanno causato incendi, che a loro volta hanno distrutto circa 10mila ettari di foresta. Inoltre pare che alcuni militari sarebbero passati attraverso la succitata Foresta Rossa, che è ancora oggi una zona proibita, e pare addirittura che alcuni abbiano toccato le scorie a mani nude ed abbiano rubato sostanze radioattive dai laboratori di ricerca, un’azione pericolosissima per la loro salute, perché potrebbe anche causarne la morte.

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