Sono trascorsi 41 anni dall’omicidio del generale Dalla Chiesa, vittima di un agguato mafioso il 3 settembre del 1982.
Aveva sfidato la mafia, da Corleone a Palermo, poi circondato dall’ostilità era stato assassinato dalla malavita insieme alla moglie a un agente della scorta, 41 anni fa, il 3 settembre 1982. Vittima di cosa nostra, Dalla Chiesa era arrivato a Palermo per sfidare la mafia e indagare sul grippo andreottiano in Sicilia, dopo i successi dell’anti terrorismo ottenuti in quei tempi.
Gli anni bui delle stragi e dell’eliminazione di giornalisti, carabinieri, agenti, generali, magistrati e politici. Fa parte di quella sfilza di eroi fatti fuori dalla mafia il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, uno di quelli che a Palermo era arrivato per contrastare cosa nostra, e che una volta lasciato solo e accerchiato è stato fatto fuori insieme alla moglie e all’agente di scorta. Un copione che tristemente si è ripetuto in Sicilia nel palermitano e non solo in quegli anni bui, tra piombo e malavita.
La sfida di Dalla Chiesa, dopo l’ottimo lavoro proprio nell’anti terrorismo, la lotta alle Brigate rosse negli anni ’70 e il servizio da ufficiale dei carabinieri a Corleone, era iniziata il 30 aprile 1982, proprio all’indomani dell’omicidio del politico anti mafia Pio La Torre. Dalla Chiesa aveva chiesto in fretta di ottenere l’incarico di superprefetto. Per il pool antimafia però bisognerà aspettare fino al 1983. L’intenzione di Dalla Chiesa era quella di colpire forte la struttura militare mafiosa, per spezzare il fil rouge tra mafia e politica, ma i poteri da superprefetto non arrivarono mai.
Il giorno del suo brutale omicidio Dalla Chiesa si trovava insieme alla moglie Emmanuela Setti Carraro e all’agente di scorta Domenico Russo. Un agguato ampiamente preannunciato da parte di cosa nostra, che da tempo preparava l’offensiva. Lo ammise lo stesso Totò Riina dopo l’arresto. Durante una conversazione intercettata in carcere il super boss raccontò ad Alberto Lorusso (capomafia pugliese) che dopo aver sentito la notizia della promozione a prefetto di Dalla Chiesa, aveva messo in guardia i suoi: “Prepariamoci, mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto: qua gli facciamo il culo a cappello di prete”. Il giorno dei funerali, a San Domenico, la folla protesto contro le presenze politiche, accusate di aver lasciato da solo il generale.
Ma rimangono ancora oggi ombre su quell’omicidio, che sì avvenne per mano di un gruppo di fuoco mafioso, ma con “casuale non direttamente ascrivibile alla mafia”. Lo aveva affermato il procuratore antimafia Pietro Grasso, nel rispondere alla domanda se tutte le incognite sul caso erano state risolte. Incognite che rimangono a 41 anni di distanza dalla strage, come ammesso anche dalla sentenza della Corte d’assise, che parla di zone d’ombra nella modalità con le quali il generale era stato mandato in Sicilia, la coesione di interessi all’interno delle istituzioni.
Lo si legge nella sentenza che ha visto le condanne all’ergastolo per Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia. Quello che è rimasto è lo sgomento di una città Palermo, di una regione la Sicilia, di una nazione l’Italia, ed è rappresentato dalla scritta anonima posta nei pressi del luogo dell’attentato: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”.
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