Alle 16.37 del 12 dicembre di cinquant’anni fa un ordigno dinamitardo contenente 7 chili di tritolo esplode all’interno della sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Piazza Fontana, nel centro di Milano, provocando la morte di 17 persone e 88 feriti. Una seconda bomba inesplosa viene rinvenuta da un impiegato della Banca Commerciale Italiana in piazza della Scala. A distanza di pochi minuti altri tre attentanti dinamitardi si verificano a Roma, causando 16 feriti: è l’inizio della strategia della tensione, definizione coniata il 14 dicembre del 1969 dal settimanale inglese The Observer per precisare il significato politico degli attentati avvenuti due giorni prima a Roma e a Milano.
Piazza Fontana e la strategia della tensione
Nell’Italia del 1969, la strage di Piazza Fontana, considerata la madre di tutte le stragi, si configura dunque come il primo tassello di un piano eversivo più ampio finalizzato al sovvertimento del quadro costituzionale e democratico. Questo l’obiettivo della strategia della tensione, basata sull’organizzazione di una serie indiscriminata di attentati terroristici volti a creare uno stato di paura diffusa tra la popolazione italiana tale da giustificare un’involuzione autoritaria dell’assetto politico-costituzionale. La strategia viene elaborata sul finire degli anni Sessanta in chiave anticomunista all’interno di alcuni degli ambienti più reazionari della società italiana e internazionale. L’Italia, paese di frontiera del blocco occidentale caratterizzato dalla presenza del più importante partito comunista dell’Europa occidentale, in quegli anni è oggetto di grande attenzione a livello internazionale. La lente era concentrata in particolar modo al variegato mondo dell’estrema destra, con il probabile appoggio e la copertura di settori deviati dei servizi segreti, in risposta alle profonde tensioni sociali concretizzatesi dapprima nella contestazione studentesca del ’68 e, a partire dal settembre del 1969, nelle lotte sindacali ed operaie dell’Autunno caldo.
Piazza Fontana: le indagini e i processi
Le indagini della polizia si indirizzarono immediatamente verso l’area anarchica: a farne le spese furono in particolare il ballerino Pietro Valpreda del Circolo anarchico 22 marzo di Roma, assolto nel 1985 dopo una lunga vicenda giudiziaria, e l’anarchico Giuseppe Pinelli, morto in circostanze misteriose durante un interrogatorio il 15 dicembre del 1969. In questo contesto ci fu anche chi propose un significativo parallelo storico tra la strage di Piazza Fontana e l’attentato anarchico al teatro Diana di Milano del 1921, episodio che allora favorì la definitiva affermazione dello squadrismo fascista.
Successivamente le indagini si spostarono sui gruppi dell’estrema destra, in particolare sulla cellula padovana di Ordine Nuovo, capitanata dai neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura. Il processo, nel frattempo trasferito da Milano a Roma e poi a Catanzaro, si concluse con l’assoluzione di entrambi gli imputati. Solo nel 2005, dopo una lunga e tormentata vicenda giudiziaria caratterizzata da un gran numero di processi, rinvii, depistaggi e numerose assoluzioni, la Corte di Cassazione stabilì con sentenza definitiva che la strage di piazza Fontana fu opera di Ordine Nuovo, in particolare del gruppo padovano guidato da Freda e Ventura, non più però perseguibili in quanto assolti per lo stesso reato con sentenza definitiva della Cassazione nel 1987.
A distanza di cinquant’anni dunque, la strage di Piazza Fontana rimane una strage impunita, oltre che uno degli episodi più oscuri e controversi della storia italiana.