L’8 marzo il mondo celebra la Festa della Donna, ma quanta strada c’è ancora da fare per la parità di genere? Molta, anzi ancora troppa, anche per come le donne vengono rappresentate dai media. Lo dice l’ultimo rapporto del Global Media Monitoring Project, la più vasta ricerca a livello internazionale sulla rappresentazione di genere nei mezzi d’informazione. La quinta edizione, realizzata quest’anno, ha riunito volontari ed esperti di 130 Paesi, scandagliando il mondo dell’informazione e in che misura le donne sono protagoniste, sia come soggetto principale che come portatrici di notizie: la percentuale nel 2015 è del 24 percento, contro il 17 percento registrato nel 1995, primo anno della ricerca. Qualcosa è cambiato, ma è troppo poco: di questo passo, secondo il rapporto, la piena parità di genere nei media sarà raggiunta non prima di 40 anni.
In Italia, siamo sotto la media: il rapporto indica che nel nostro Paese le donne nei media sono il 21%. La percentuale sale (e di molto) se l’argomento è la famiglia e i genitori: in quel caso le donne sono protagoniste sette volte su dieci, come specificano Claudia Padovani, dell’università di Padova, e Monia Azzalini, ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia, che hanno curato la raccolta dati in Italia.
Quando si passa a posizioni di prestigio, la percentuale torna a scendere in maniera drastica: quando si parla di politici siamo al 15 percento, ricerca e Università al 25 percento, magistratura e avvocatura al 21 percento. Eppure, fa notare la Azzalini, intervistata da La Stampa, le donne giudici e avvocati sono più degli uomini. “In tutte le professioni dove ci si afferma con titoli e meriti, le donne raggiungono e a volte superano i colleghi. Il problema sta nei ruoli di vertice: le donne hanno meno prestigio e autorevolezza, anche perché devono ancora scontare il fardello degli anni passati. In politica per esempio la visibilità si dimezza rispetto alla rappresentanza“, spiega.
Perché è così importante che le donne vengano rappresentate nei media? Perché se nessuno parla di te non esisti. Questo vale soprattutto nel mondo dell’informazione globale di oggi, dove chiunque può trasmettere notizie e fare informazione usando i social network, blog e altri strumenti del web.
Il ruolo dei media è fondamentale nel racconto della realtà e non perché i giornalisti raccontano la “loro” realtà. Lo è perché costruiscono il pensiero comune con il loro lavoro, danno l’agenda delle cose che contano. Rimaniamo in ambito “femminile”. Oggi tutti, più o meno, conoscono il termine femminicidio. Pochi sanno come siamo arrivati a usarla. La prima a coniarla fu la criminologa Diana Russell in un saggio nel 1992. L’anno successivo, il 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde iniziò a usarla per indicare il massacro delle donne al confine tra Messico e Stati Uniti: la scelta di usare questa nuova parola nasce dall’esigenza di indicare l’uccisione di una donna perché donna. Il movimento femminista ha lavorato a lungo per farla entrare nel nostro vocabolario collettivo. Oggi, anche in Italia la conosciamo perché sono stati i media a usarla, a spiegarla, a divulgarla.
“Il problema fondamentale è che tanta parte dell’informazione di oggi non riflette il mondo come è veramente“, spiega Karin Achtelstetter, segretaria generale della World Association for Christian Communication (WACC). “Quando le donne sono invisibili come esperti e opinion maker, quando sono dipinte come vittime, oggetti sessuali o come persone che non lavorano; quando gli uomini sono stereotipati in ruoli da macho, si modella la mentalità della società che continua a pensare per stereotipi e si inibisce il pieno contributo che donne e uomini possono dare“.
La parità di genere nel mondo dell’informazione riguarda anche chi lavora con le notizie. Nel nostro Paese, per esempio, circa il 40% dei giornalisti sono donne, ma ai ruoli di vertice ci sono quasi solo uomini: stando ai dati Inpgi (l’Inps dei giornalisti), il 25% dei caporedattori è donna, tra direttori e vice direttori si scende al 23%.
Aggiungiamo un altro dato. Secondo il rapporto “Women at work” stilato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro sulle condizioni di lavoro in cento Paesi, nel 2015 il tasso di occupazione delle donne è del 46 percento, e di quasi 72 per cento per gli uomini. Le donne lavorano meno e vengono pagate meno anche nei Paesi più ricchi e anche se hanno un maggior tasso di istruzione degli uomini perché a loro vengono negate, o rese difficili, le posizioni di vertice.
Il quadro è questo. Nel 2016 le donne continuano a pagare sulla loro pelle il solo fatto di essere donne, invisibili al mondo perché donne, discriminate perché donne. Non proprio un bel modo di festeggiare l’8 marzo.