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Abolire i voti sotto al quattro è davvero una buona idea? Riflettiamoci

L’assessore provinciale in lingua tedesca dell’Alto Adige Philipp Achammer ha fatto una proposta: abolire tutti i voti sotto al quattro. Ovviamente questo ha dato il via a una serie di polemiche: da un lato c’è chi appoggia questa idea, dall’altro chi la reputa del tutto controproducente. 

Scuola – Nanopress.it

Il metodo di valutazione degli alunni negli anni è cambiato più volte, soprattutto nella scuola primaria. Ma oggi c’è chi vuole che qualcosa cambi anche nella secondaria, abolendo completamente i voti dal quattro in giù: è questa la proposta dell’assessore provinciale in lingua tedesca dell’Alto Adige Philipp Achammer, che ha spaccato in due l’opinione pubblica (com’era prevedibile).

Via i voti dal quattro in giù: la proposta che fa discutere

Via i voti sotto al quattro: questa è la proposta dell’assessore provinciale in lingua tedesca dell’Alto Adige Philipp Achammer, che ritiene che questi non abbiano “alcun valore educativo e pedagogico”. Prima di addentrarci nei meandri della scuola italiana, però, dovremmo fare un balzo indietro e tornare a un paio di anni fa, quando cioè nel mare magnum formato dall’istruzione, emergevano i classici voti dall’1 al 10 (e potremmo metterci dentro anche lo 0).

Le votazioni nelle scuole elementari hanno visto negli anni profondi cambiamenti: fino a quindici anni fa circa erano suddivisi in non sufficiente, sufficiente, buono, distinto, ottimo (li abbiamo volutamente menzionati in ordine crescente). Poi il cambio di rotta e anche nella scuola primaria è arrivata la temutissima numerazione, finché un paio di anni fa circa la votazione è stata sostituita dai cosiddetti giudizi descrittivi, che partono da avanzato – il livello più alto, e continuano con intermedio, base e in fase di apprendimento (che potremmo dire che corrisponde all’insufficienza).

Nelle scuole secondarie (di primo e secondo livello), invece, continuano a esistere i voti da 0 a 10, fermo restando che i più bassi (cioè quelli compresi tra 0 e 3) sono considerati comunque da alcuni professori ormai quasi un tabù. Ma questo resta soggettivo e il modo in cui usare la numerazione dipende dal singolo insegnante e dal suo metro di giudizio e va benissimo così.

Tutto cambierebbe però con la proposta di Achammer, perché a quel punto i voti partirebbero da 5 – che dovrebbe essere una sorta di “quasi sufficiente” – e arriverebbero al 10.

Scuola – Nanopress.it

Ma siamo sicuri che sia un’ottima idea? A questa domanda hanno provato a rispondere varie personalità che della scuola fanno il loro pane quotidiano.

L’opinione pubblica spaccata in due

Possiamo prendere immediatamente in prestito le parole del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, che ha chiaramente intimato di “non far crescere nell’ovatta i nostri ragazzi”, perché “se non li abituiamo ad affrontare le frustrazioni, che nella vita saranno tante, facciamo il loro male”. Oppure quelle di Stefania Auci, docente di sostegno e scrittrice che, intervistata dal Messaggero, ha affermato: “Dobbiamo capire che il voto dell’insegnante non ha un intento punitivo né rappresenta la valutazione della persona. È una chiamata alla responsabilità dell’alunno”. 

Fa parte della “fazione opposta” Dario Ianes, docente ordinario di Pedagogia e Didattica Speciale all’Università di Bolzano che, parlando della proposta di Achammer si è detto d’accordo con la sua proposta perché “i voti sotto il 4 sono umilianti, non danno alcuna informazione né motivazioni per migliorarsi”. E non solo, perché Ianes non si è fermato qui, ma ha parlato di abolire completamente i voti e di sostituirli con una valutazione formativa, che renderebbe quindi gli insegnanti più vicini agli allenatori e meno ai giudici, nel senso che smetterebbero di giudicare gli studenti e inizierebbero ad aiutarli a raggiungere la massima prestazione. Secondo lui, in pratica, i giovani amano i loro coach perché, per quanto possano essere severi, li sentono dalla loro parte, cosa che spesso non avviene con i professori, che anzi vengono percepiti a volte “come qualcuno “dall’altra parte”, da “fregare”, anche copiando, se necessario, per arrivare alla sufficienza”.

Alt: dobbiamo fermarci un attimo a riflettere su queste parole. Davvero possiamo paragonare un insegnante a un allenatore? Probabilmente sì, nella misura in cui entrambi devono condurre un ragazzo verso il raggiungimento di un obiettivo. Ma c’è una differenza sostanziale tra sport e scuola: il primo è una scelta facoltativa, il secondo è un diritto-dovere. E questo cambia tutto.

Inoltre, a proposito del discorso sul “fregare” i professori, possiamo aprire un’altra parentesi, perché se un insegnante non riesce a spronare gli alunni a fare di più, non riesce a tirare fuori il meglio da ognuno di loro, non riesce a far comprendere loro il valore dell’impegno quotidiano, fondamentale per raggiungere i loro obiettivi, forse è un problema più suo che del sistema scolastico, dei numeri, dei voti.

La scuola secondaria di secondo grado soprattutto dovrebbe essere un trampolino di lancio verso il futuro, verso l’università oppure il lavoro: dovrebbe insegnare agli alunni come essere costanti, far aprire loro gli occhi su chi vogliono diventare, rendere loro più chiaro cosa vogliono fare dopo.

Se ormai nella scuola – non in tutte, solo in alcune, sia chiaro – si sia ridotto tutto alla mera votazione, la colpa probabilmente non è di quanto questa possa mortificare i ragazzi, ma è riconducibile a come gli insegnanti sono soliti esprimere il loro giudizio, come riescono a far comprendere loro che un numero non li deve assolutamente identificare, come fanno capire loro che chi prende quattro (ma anche tre, uno, zero) non vale quattro (oppure tre, uno, zero), ma ha avuto magari solo un momento di “defaillance” e non c’è nulla di male in questo e, anzi, crescere significa anche saperlo accettare e saper ripartire da lì per poter migliorare.

Siamo stati tutti adolescenti, tutti sappiamo cosa significhi vedersi imporre qualcosa a 14 anni, quanto sia frustrante in quella fase della propria vita pensare di non potersi divertire per stare a casa e studiare, quanto a volte sia abbia voglia di fare “filone” e andare a prendere il sole. Ma sappiamo anche che, da adulti, rimpiangiamo quei tempi e il più delle volte ne traiamo degli insegnamenti.

Chi ha fatto sport tra le scuole medie e il liceo probabilmente avrà odiato tanto i suoi allenatori quanto i suoi professori, perché vedeva tutti loro come un ostacolo alla sua indipendenza, alla sua libertà, alla possibilità di uscire e fare quello che voleva. Ma probabilmente chi ha fatto sport tra le scuole medie e il liceo, con il senno di poi, ha poi iniziato ad apprezzare tanto i suoi allenatori quanto i suoi professori, perché entrambi verosimilmente – anche se in modi differenti – gli hanno insegnato il valore della disciplina, della costanza, dell’impegno.

Spesso i tre spronano a prendere nove, le sconfitte a vincere, sia a scuola che nello sport. Servono i no – anche da parte dei genitori – servono le rinunce, servono anche i “fallimenti” (per quanto prendere quattro oppure perdere una gara possa esserlo). Nella vita serve tutto questo, solo che a 15, 16, 17 anni non possiamo ancora saperlo. E chi ci può aiutare a comprenderlo? I professori, che sono verosimilmente le persone che vediamo più spesso dopo la nostra famiglia (anzi, in alcuni casi anche prima).

Siamo sicuri che lasciando intatte solo le votazioni dal cinque in poi, i ragazzi non si adagerebbero sugli allori, pensando che possono anche fare poco e nulla, tanto comunque passeranno l’anno? Probabilmente no. Di sicuro alcuni lo farebbero eccome e la colpa a quel punto non sarebbe la loro.

Solo che poi all’università dovrebbero fare anche un corso accelerato su come essere bocciati a un esame senza credere di non valere nulla, su come accettare (oppure rifiutare) un 18 e poi vedere gli altri prendere 30 e non pensare di essere meno. E poi dovrebbero anche farne un altro su come accettare l’idea di non essere assunti dopo un colloquio, su come imparare a vedere altri passare avanti quando magari hanno meno capacità, su come accettare l’idea di vedersi chiudere alcune porte in faccia nel mondo del lavoro senza sentirsi sminuiti. E potremmo continuare così all’infinito.

Il succo del discorso in pratica è sempre questo: la scuola è – oppure almeno dovrebbe essere – uno specchio della vita. Non possiamo chiudere un occhio e fingere che le sconfitte, i no, i quattro non esistano. Perché ci saranno sempre (anche se mano a mano in modo diverso) e probabilmente faranno sempre più male.

Impariamo invece a dare il giusto peso alle sconfitte, ai no, ai quattro. Impariamo a capire che noi non siamo quello, al massimo possiamo essere anche quello, ma non solo, che è ben diverso. Ma, soprattutto, impariamo a capire anche che se da tutto questo non siamo capaci di imparare nulla, allora non ci sono serviti assolutamente. Ma in questo caso la colpa non è di certo della “mortificazione” che ne consegue.

Anna Gaia Cavallo

Mi chiamo Anna Gaia Cavallo, ho 30 anni, sono nata a Salerno e lì ho vissuto fino ai miei 18 anni. Poi il viaggio verso Siena per l'università, la laurea in economia e gestione d'impresa e poi il ritorno nella mia città natale. Qui, dopo un anno di lavoro nel settore economico, ho capito che non era questa la strada giusta per me e ho deciso di seguire quella che era sempre stata la mia più grande passione fin da piccola: la scrittura. A quel punto ho lasciato tutto quello che avevo costruito nei sei anni precedenti e ho intrapreso un altro percorso, quello che mi ha portato a diventare giornalista. Iscritta all'albo dei pubblicisti della Campania dal 2019, dopo aver attraversato diversi mondi, sono approdata sul pianeta Nanopress nel 2022 come editor e qui amo occuparmi di cronaca e attualità, ma quando mi capita di scrivere di musica raggiungo il massimo del piacere.

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