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Sull’opportunità che un bambino possa essere adottato e quindi cresciuto da una coppia di omosessuali, complice il dibattito politico sul disegno di legge Cirinnà, ultimamente si sono espressi tutti. Dal Presidente della Società Italiana di Pediatria, Giovanni Corsello, secondo cui “ricerche dimostrano che vivere in una famiglia senza figura materna o paterna potrebbe danneggiare i figli” al Presidente della Società italiana di Psichiatria, Claudio Mencacci, che invece sostiene come “ciò che conta sia valutare la capacità affettiva dei genitori” e, quindi, non il loro sesso.
In realtà, però, il disegno di legge Cirinnà, con la stepchild adoption, consentiva (prima di essere stralciato) soltanto l’adozione del figlio naturale del compagno e, quindi, avrebbe coinvolto quei bambini che di fatto già vivono e vengono cresciuti da due genitori dello stesso sesso (Scopri qui cosa prevede il Ddl Cirinnà).
Sulla scia di questo dibattito, noi della redazione di NanoPress.it abbiamo deciso di provare a uscire dai tecnicismi degli esperti e sentire l’opinione di chi, pur esprimendo un’opinione personale e pertanto sicuramente influenzata anche da altri fattori, ha un trascorso di vita rilevante nel giudicare quale possa essere una condizione di crescita favorevole per un bambino.
Parlando di adozioni gay, infatti, troppo spesso ci si dimentica che i veri protagonisti di questa rivoluzione sarebbero i bambini adottati da una coppia omosessuale. Così abbiamo pensato di chiedere a chi, da bambino, non ha avuto la possibilità di crescere con alcuna famiglia se, a loro parere, un bambino può crescere meglio con una coppia di omosessuali o in un orfanotrofio. L’opportunità di dare una famiglia a chi non ce l’ha, sarebbe infatti ancor più importante e interessante da un punto di vista sociale.
Abbiamo contattato l’Associazione Ex Martinitt e Stelline, gli storici orfanotrofi maschile e femminile di Milano, e abbiamo partecipato a un loro evento, durante il quale abbiamo intervistato tutti quelli che si sono dichiarati disponibili.
E’ interessante come quasi tutti abbiano riportato che il momento peggiore della loro esperienza sia stato proprio quello in cui sono entrati in orfanotrofio e il migliore quando invece ne sono usciti, dimostrando di fatto che per un bambino la vita in orfanotrofio non è certo una vita felice. Non manca, infatti, chi racconta di punizioni e “anche botte” senza reali motivazioni e chi non si vergogna a dire che si sarebbe accontentato di una semplice carezza, che però in quella struttura non gli è mai arrivata.
Nonostante questa loro esperienza, la maggior parte di loro ritiene che per la crescita di un bambino orfano sia comunque meglio una struttura come l’orfanotrofio, tenendo anche presente che oggi sono state trasformate in case-famiglia più a condizione umana rispetto a quelle che esistevano un tempo, che una coppia omosessuale.
Sicuramente bisogna tener presente, nell’analizzare queste risposte, che la maggior parte degli intervistati risultano essere persone over 60 e quindi appartenenti ancora a una generazione in cui l’omosessualità era un tabù. Pertanto, per quanto la loro esperienza sia stata – a loro dire – “negativa”, è una realtà che conoscono rispetto alla possibilità che un bambino cresca in una famiglia arcobaleno. Questa possibilità, infatti, non essendo ancora mai stata sperimentata in Italia (scopri qui i Paesi che prevedono le adozioni gay), sicuramente provoca maggiore preoccupazione rispetto a una prassi consolidata, seppur imperfetta.
Emblematico è il caso del Presidente dell’Associazione Ex Martinitt e Stelline, Alessandro Bacciocchi, che, pur ricordando il viaggio per arrivare in orfanotrofio e i pensieri e le paure che in quel tragitto affollavano la sua mente come il momento peggiore della sua esperienza, dichiara di preferire che “un bambino viva in un istituto piuttosto che con due mamme o due papà”.
Questo dimostra come sia talmente radicata nella cultura italiana la paura verso una situazione che al momento risulta, anche a causa dell’attuale vuoto normativo, tanto anomala quanto innovativa. Tanto che, se la stessa domanda fosse stata rivolta agli italiani over 60 a prescindere dalle loro personali esperienze infantili, probabilmente si sarebbe ottenuto lo stesso risultato e quindi risulterebbero addirittura avanguardista l’intervistato che dice “da una coppia, indipendentemente se etero o omosessuale, una carezza almeno l’avrei ricevuta”.
Sicuramente, però, questa tendenza dimostra perché ad oggi sia così difficile, in Italia, apportare una rivoluzione così importante dal punto di vista politico: gli over 65 con il diritto al voto sono più di 13milioni su una popolazione votante di poco più di 49milioni e pertanto rappresentano il 26,5% dell’elettorato. Una percentuale che i partiti, sia per una questione di opportunismo politico sia per una questione di rappresentatività, non possono ignorare.