“Mi condannano sulla base di dubbi e di falsità. Aspetto di consultarmi con i miei avvocati per ricorrere in appello. Sono sicuro che dimostrerò la mia innocenza”. Con queste parole Domenico Lucano, l’ex sindaco del comune calabrese di Riace, aveva lasciato l’aula del Tribunale di Locri, dove, in prima sentenza, era stato condannato a 13 anni e 2 mesi per varie accuse legate alla gestione dei fondi pubblici.
Oggi Lucano cercherà di rispettare quegli auspici difendendo nel corso della seduta di appello il suo “modello Riace”, divenuto famoso internazionalmente quale prototipo di accoglienza inclusiva e cooperativa tra cittadinanza autoctona ed immigrati.
Le accuse e la prima sentenza
Posto agli arresti domiciliari nel 2018, nel settembre 2021 era giunta per Lucano la condanna in primo grado.
Le motivazioni a carico dell’ex sindaco calabrese sono state quelle di aver costituito, sotto la veste di attività umanitaria e di integrazione sociale, una associazione a delinquere macchiatasi di abuso d’ufficio, peculato, concussione, truffa, turbativa d’asta, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e falso ideologico.
Per i giudici quella di Riace era una vera e propria cosca, la cui cupola vedeva alla sommità lo stesso Mimmo Lucano, che avrebbe sfruttato illecitamente i fondi statali per arricchirsi e modellarsi una forte immagine politica.
Tale dinamica starebbe alla base della pesante sentenza di 13 anni e 2 mesi di carcere per il deposto primo cittadino calabro, verdetto addirittura doppio nella durata rispetto a quanto chiesto dalla stessa accusa.
Lucano e gli altri 17 condannati a vario titolo sono stati chiamati presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, dove tra oggi e probabilmente il 6 luglio (secondo giorno d’udienza) verranno costituite le parti e saranno esposte le relazioni dei giudici a latere.
Il modello Riace
Da più parti la sentenza a Lucano era stata vista quale frutto di un processo più politico che legale. Il “modello Riace”, dal nome del comune di cui Lucano è stato per tre volte sindaco dal 2004 al 2018, ha saputo proporre un efficace formula rispondente a due problemi centrali per il Meridione: l’accoglienza e gestione dei flussi migratori da un lato; lo spopolamento e conseguente degrado di molte zone soprattutto rurali dall’altro.
Già a partire dal 1998, per corrispondere all’arrivo di alcuni profughi curdi, Lucano iniziò a imbastire quello che poi sarebbe divenuto il “modello Riace” per l’appunto. Capisaldi di questa esperienza sono stati la rivitalizzazione di pratiche artigiane e commerciali quasi scomparse per via dell’emigrazione, tanto interna quanto estera, di molti giovani del Sud (assenze queste sopperite dai migranti impratichiti dagli anziani residenti); nonché la rifioritura dei borghi semidisabitati dove i profughi sono andati ad abitare attuando lavori di restauro ed ammodernamento delle strutture, con benefici significativi per le comunità ivi abitanti.
A quanto pare la fine di questo esempio ventennale di cooperazione, inclusione e mutua crescita, riconosciuto nella sua efficacia da molti organi internazionali, è coincisa con l’ingesso negli uffici del Viminale di Matteo Salvini.
Il leader della Lega ha saputo sfruttare le ondate migratorie degli ultimi anni strumentalmente per accrescere il proprio consenso, utilizzando coloro che al contrario tentavano di gestire il fenomeno nel modo più vantaggioso per tutte le parti coinvolte, quali doppiogiochisti dai mefistofelici propositi.
Naturalmente la giustizia segue un corso indipendente e libero, tuttavia non si può negare che processo e condanna di Mimmo Lucano siano arrivate proprio in un momento in cui il sentire del Paese era inficiato da un dibattito per lo meno tendente alla xenofobia, nonostante il sindaco riacese operasse da ormai vent’anni in progetti di integrazione.