Cosa c’è dietro la trattativa tra Almaviva Contact e il ministero dello Sviluppo economico che ha portato, in buona sostanza, al fallimento della contrattazione e al licenziamento di 1660 lavoratori della più importante azienda italiana di call center? Come si è arrivati a tutto questo? Perché Almaviva Roma ha detto No all’accordo? Cerchiamo di rispondere chiaramente punto per punto, per capire qualcosa in più della vicenda Almaviva.
Cos’è Almaviva?Almaviva è una delle 7 grandi imprese (insieme a Comdata, Call &Call, Transcom, Teleperformance, Visiant, Abramo) che opera nel settore dei Call Center. E’ il sesto gruppo privato italiano per numero di occupati al mondo, con un fatturato (nel 2015) pari a 709 milioni di euro. Sempre in riferimento a quell’anno, Almaviva contava 38 sedi in Italia e 21 all’estero (Brasile, Stati Uniti, Cina, Colombia, Tunisia, Sudafrica, Romania e a Bruxelles) per un totale di 45.000 persone impiegate, di cui 13.000 in Italia e 32.000 all’estero.
Perché Almaviva ha deciso i licenziamenti?A ottobre 2016 Almaviva ha annunciato la chiusura delle sedi di Roma e Napoli – con conseguente licenziamento di 2.511 persone, di cui 1.666 nella sede capitolina e 845 in quella partenopea – ufficialmente per la diminuzione dei propri ricavi rispetto alla forza lavoro impiegata. A dicembre 2016, inoltre, l’azienda ha evidenziato il suo “no alla cultura del sussidio” ritenuta “inadeguata e impropria” mirando invece alle delocalizzazioni in altra sede (Romania).
Un lavoro che frutta se svolto all’estero
Migliaia sono le postazioni fuori d’Italia, in grande maggioranza per i servizi cosiddetti ‘outbound’, cioè di vendita, telemarketing, ricerche di mercato, sondaggi, etc. Le attività delocalizzate rappresentano circa il 15% del totale del mercato italiano: il Paese di preferenza è l’Albania (Tirana, Durazzo, Valona), seguito da Romania e Croazia (Pola). Solo in Albania nel 2015 è raddoppiato il numero di call center che lavorano per il mercato italiano con oltre 25mila posti di lavoro.
Cosa hanno fatto i lavoratori?I lavoratori, attraverso i sindacati, hanno quindi organizzato la protesta per chiedere l’apertura di un tavolo di trattativa insieme al governo, per scongiurare la possibilità di perdere il posto di lavoro trovando una mediazione con l’azienda. A maggio 2016 i sindacati sono riusciti a impedire circa 3mila licenziamenti in alcune sedi del gruppo Roma (918 persone), Napoli (fino a 400 persone) e Palermo (1.670 persone). Ma a ottobre, nonostante i lavoratori (molti part time) abbiano accettato contratti di solidarietà penalizzanti (anche del 45% in meno) su salari che non arrivano a 500 euro, Almaviva ha nuovamente comunicato ai sindacati la procedura di riduzione del personale.
Qual è stata la proposta di Almaviva?Al fine di “individuare soluzioni in tema di recupero di efficienza e produttività in grado di allineare le sedi di Roma e Napoli alle altre sedi aziendali”, Almaviva aveva pensato a “interventi temporanei sul costo del lavoro”. La proposta (bocciata dai sindacati) prevedeva un congelamento degli scatti di anzianità e una parziale temporanea riduzione delle retribuzioni.
Qual è stata la proposta del Mise?Alla scadenza della trattativa, il 21 dicembre 2016, il Ministero dello sviluppo economico, nelle persone di Carlo Calenda e del viceministro Teresa Bellanova, non ha trovato alcuna soluzione, ma ha chiesto ad azienda e sindacati di proseguire con il confronto per altri tre mesi, ovvero fino al 31 marzo 2017, proponendo ad Almaviva, per contenere i costi, di affidarsi in maniera provvisoria alle uscite volontarie dei lavoratori e all’uso degli ammortizzatori sociali, ossia alla cassa integrazione.
Come si è conclusa la trattativa?Dopo settimane di proteste e due tentativi di mediazione del governo, nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 2016 la trattativa si è interrotta bruscamente con la firma di accettazione della proposta di proroga da parte dei sindacati di Napoli e il rifiuto assoluto di quelli di Roma. L’azienda, irremovibile, ha respinto qualsiasi ipotesi di riapertura della trattativa. Le lettere di licenziamento a 1.660 lavoratori sono arrivate il 27 dicembre.
Il tritacarne mediatico
Dal 23 dicembre in poi, i media hanno riportato la notizia delle proteste dei lavoratori fuori dai palazzi di governo, indugiando forse un po’ troppo sulle presunte responsabilità dei sindacati circa il fallimento della trattativa. C’è da dire invece che è stato il governo a proporre, per favorire l’azienda, tutto ciò che i lavoratori (soprattutto quelli di Roma) avevano definito ”intoccabile”, ossia l’abbassamento delle retribuzioni e il controllo individuale a distanza delle prestazioni, ma soprattutto la richiesta di strumenti per far diventare più produttivi i siti a rischio di Napoli e Roma.
Cosa succede ora?
I lavoratori di Roma sono stati licenziati, mentre per i lavoratori di Napoli ci sono tre mesi di ”sospensione” con ammortizzatori sociali, un periodo durante il quale però si dovrà trovare un accordo su abbassamento del costo del lavoro, modalità di controllo a distanza e recupero efficienza e produttività. Se l’accordo non dovesse trovarsi, l’azienda sarà libera di licenziare.
IL COMUNICATO DEI LAVORATORI ALMAVIVASiamo avviliti e schifati per il modo in cui giornali e telegiornali stanno vendendo la nostra storia all’opinione pubblica. Quasi non crediamo sia possibile che l’unica versione servita al popolo italiano sia quella dell’azienda, del Governo o al massimo delle dirigenze sindacali. 1666 lavoratori vanno a casa dopo anni di lavoro e mesi di battaglie e la loro voce non viene praticamente ascoltata.
Perché non sono i mesi di sacrifici, di contratti di solidarietà, di salario perso a forza di scioperi, gli anni di lavoro che vanno in fumo con una semplice lettera di licenziamento. Non è questo il nostro principale dolore in questo momento. Sono queste inaccettabili menzogne a ferirci davvero, quelle che vorrebbero tramutare la vittima in colpevole.
Quelle che vorrebbero far ricadere la colpa di questo licenziamento di massa sugli stessi che lo subiscono e non su un’azienda che l’ha sempre voluto, che da anni usa questa minaccia per intascare soldi e commesse pubbliche, che da anni vessa i propri dipendenti e li mette gli uni contro gli altri. Un’azienda che mentre chiude le sedi di Roma e Napoli dove i lavoratori sono più anziani e le costano di più perché hanno ancora dei diritti, non si fa scrupolo di delocalizzare in Romania e chiedere ore di straordinario nelle sedi di Milano e Rende.
Perché la vera notizia di oggi doveva essere quella per cui in questo paese pieno di ricatti, di paura, di un servilismo alimentato da piccole promesse e illusioni, qualcuno, nonostante il prezzo, ha provato a dire NO: no a un accordo che altro non era che l’ennesimo attacco alla nostra dignità di lavoratori ed ai nostri diritti conquistati in anni di lavoro. Questa la proposta “indecente” avanzata da azienda e Governo, proposta che prevedeva la rinuncia agli scatti di anzianità maturati, controllo individuale e cassa integrazione. Tutte condizioni che se accettate avrebbero decurtato stipendi già miseri, reso ancora più insopportabile la nostra vita lavorativa e reso noi lavoratori ancora più vessati ed umiliati.Tutte proposte, guarda caso, avanzate dall’associazione padronale di categoria (ASSTELL) per il rinnovo del contratto nazionale dei dipendenti delle telecomunicazioni.
La pezza che ha provato a metterci il Governo consisteva soltanto in una proroga della trattativa di altri tre mesi. Uno stillicidio pagato con le tasche dei contribuenti in forma di cassa integrazione, per imporre poi lo stesso taglio del costo del lavoro e il controllo individuale che avevamo dichiarato inaccettabile e quindi concludere il tutto comunque con i licenziamenti. E per far passare questa schifezza, che nei titoli dei giornali era già “salvataggio” ancor prima che la trattativa si concludesse, hanno fatto una forzatura inaccettabile: quella di separare le vertenze di Napoli e Roma, che finora avevano corso insieme, per metterle l’una contro l’altra.
E ora vorrebbero mascherarsi dietro i formalismi procedurali e con questi assolvere ancora una volta dalle sue responsabilità un’azienda da sempre arrogante e spietata!
La verità è che Almaviva voleva il plebiscito e non l’ha ottenuto. Perché è vero che la paura si è fatta strada, assecondata dalle dirigenze sindacali che, anziché rafforzare quelli che resistevano, l’hanno pure alimentata con raccolte firme e un referendum che non aveva nulla di democratico, che chiamava libero un voto svolto sotto ricatto. Per una volta però questo non è bastato. Perché nonostante questo, in quel referendum, il 44% dei lavoratori ha comunque detto NO. Noi capiamo i nostri colleghi del SI, quelli disposti alla fine ad accettare e non gli facciamo una colpa delle loro decisioni. I colpevoli dei ricatti non sono quelli che cedono, ma quelli che li architettano.
Capiamo adesso la loro delusione, molto più di quanto non lo facciano quelli che li hanno provati a sfruttare contro di noi, che si sono gettati come sciacalli sulle incertezze e difficoltà di noi tutti, le difficoltà che chiunque proverebbe di fronte a una lettera di licenziamento. Perché nonostante le nostre scelte diverse noi siamo e ci sentiamo nella stessa condizione.
Però nonostante gli enormi sacrifici che questa comporta, rivendichiamo con orgoglio di aver messo un punto, un freno all’arroganza di chi chiama “responsabilità” accettare di essere servi pur di lavorare. Perché a tutto c’è un limite, ancora siamo uomini e non ancora schiavi, nonostante le politiche di questi governanti che ora voglio apparire salvatori ci stiano portano in questa condizione.
Per questo hanno provato a infamarci, perché abbiamo dimostrato che la loro arroganza non può tutto. E questo non lo riescono proprio a tollerare. Perché ci tengono ad apparire più forti di quanto siano e hanno il terrore che anziché farci la guerra tra noi per le briciole che ci concedono potremmo cominciare a unirci e lottare.
Per noi, infatti, la lotta non si conclude qui.