Bidet, lavabo, piatto doccia, wc: tutti con amianto incorporato. Colpa di una cava sarda, secondo ‘Il Fatto Quotidiano’, da cui sarebbe arrivato il feldspato di sodio incriminato. Che è stato acquistato in Lazio ed Emilia Romagna, nei distretti di Civita Castellana e Sassuolo, i più importanti in Italia per quanto riguarda la ceramica. Insomma, metà delle case italiane avrebbe come ospite sgradito il materiale che, da 25 anni, è vietato. Come estrazione, importazione, commercializzazione e produzione. In quanto pericoloso e nocivo per la salute dell’essere umano.
Andiamo per gradi. E spieghiamo la vicenda. Primavera del 2015: un ispettore della Asl di Viterbo riscontra tracce di amianto all’interno dell’azienda ‘Minerali Industriali’ di Gallese, nel distretto di Civita Castellana; qui si produce il 70 per cento delle ceramiche sanitarie italiane e anche parecchie piastrelle. Le successive analisi, non solo della stessa Asl laziale, ma pure del Politecnico di Torino, confermano che nell’impasto con cui si produce la ceramica c’è la tremolite, tipo di amianto tra i più pericolosi in circolazione, in percentuale assai maggiore a quanto previsto dalla legge come limite massimo. L’azienda viene sequestrata per essere bonificata, cosa che non è stata ancora fatta. La Procura di Viterbo apre l’indagine, iscrivendo nel registro cinque persone per violazione della legge sulla sicurezza sul lavoro.
La situazione, che sarebbe già grave così, si aggrava ulteriormente nel momento in cui una commissione parlamentare sui rifiuti – istruita dal deputato pentastellato Alberto Zolezzi (medico esperto nelle malattie respiratorie), inizia a occuparsi della vicenda. A inizio novembre, in Parlamento, arriva la nota del sostituto procuratore di Viterbo, Massimiliano Siddi: “Nel corso del procedimento, è stata disposta la perquisizione di 56 ditte del distretto ceramico di Civita Castellana, utilizzatrici dei materiali lavorati e commercializzati dal sito ‘Minerali Industriali’ di Gallese, al fine di accertare se sussistesse contaminazione dei luoghi di lavoro e, conseguentemente, per i lavoratori esposti. Il 29 marzo 2016 il consulente tecnico ha concluso per la presenza di amianto nei campioni messi a disposizione”.
L’amianto c’è in 56 aziende su 300. Zolezzi prosegue con un’interrogazione al governo, che risponde nel luglio del 2016: “Gli approfondimenti in corso hanno riscontrato ulteriori indizi che coinvolgono altre aziende sul territorio nazionale impegnate nel settore”. La ceramica con amianto incorporato è finita pure nel distretto di Sassuolo, che è il più importante d’Italia. Solo che qui non ci sono procedimenti aperti.
Gallese e Sassuolo hanno ricevuto l’impasto contaminato da una cava concessa alla ditta ‘Maffei’, a Cuccuru Mannu, nel comune sardo di Orani. Nella relazione tecnica che ne autorizzava la concessione, non si fa riferimento all’amianto. La cava aveva una capacità d’estrazione di 73 mila tonnellate di feldspato di sodio l’anno a un prezzo di 30 euro a tonnellata, la metà di quello cinese e un terzo di quello indiano, in grado comunque di generare ricavi annui per 2,2 milioni di euro. Viene aperta un’indagine dalla Procura di Nuoro, la cava viene sequestrata, ma fino a settembre del 2016 – a un anno dunque dalla scoperta dell’impasto contaminato nel Lazio – ha continuato a produrre e a distribuire amianto. L’ipotesi di reato è di disastro ambientale.
L’amianto è pericoloso quando si disperde nell’ambiente o quando viene inalato. A rischio ci sono dunque tutte le persone che hanno partecipato al processo produttivo: estrazione, trasporto, preparazione dell’impasto matrice (l’azienda ‘Minerali Industriali’). Ma anche gli operai delle aziende di ceramiche. E non dimentichiamo la fase di installazione del lavabo o della piastrella negli appartamenti. In particolare per i rivestimenti, la ceramica viene tagliata a misura, le particelle pericolose galleggiano dunque nell’aria.
Da citare, poi, lo smaltimento. Normali discariche accolgono i pavimenti in ceramica. Se però si fosse saputo che conteneva amianto, sarebbe diventato rifiuto speciale. Così, invece, mette a rischio il terreno e le falde acquifere. Insomma, tracciare il prodotto contaminato – dall’inizio alla fine – sarebbe compito di magistrati e autorità coinvolte. Ma finora nessuno pare intenzionato a farlo. Il lavoro è grande e gravoso, del resto. Ma ne andrebbe della salute di milioni di persone, con relative cause, risarcimenti milionari.
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