Furono tanti gli ostacoli che Artemisia Gentileschi si trovò costretta a superare per affermare il suo diritto di essere “pittora”, come lei stessa si definiva. Caparbia, determinata e inflessibile, Artemisia mostrò il proprio carattere anche in quello che sicuramente fu l’episodio che la segnò come donna e come artista: lo stupro subito a diciassette anni da parte del pittore e amico di famiglia Agostino Tassi.
Per secoli l’arte della Gentileschi fu letta esclusivamente in chiave biografica, sovrapponendo continuamente le vicende personali al reale valore di questa artista che non temeva di cimentarsi nei grandi soggetti storici e biblici e che seppe dare vita sulla tela a tante figure femminili dotate di una forza straordinaria. Fu solo nel secolo scorso che alla Gentileschi venne riconosciuto finalmente il ruolo che le spettava nella storia dell’arte italiana.
Definita dal maestro di critica d’arte Roberto Longhi come l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità, da non confondere adunque con la serie sbiadita delle celebri pittrici italiane, Artemisia nacque nel 1593 in una Roma che era un centro artistico unico in Europa. Committenze prestigiose e botteghe di artisti la rendevano il fulcro di quel progetto di Riforma della Chiesa Cattolica che intendeva contrapporsi, anche da un punto di vista artistico, alla Riforma luterana.
Ma di quella Roma che tanto aveva da offrire agli artisti Artemisia vide ben poco all’inizio, perché nata in un’epoca in cui l’esistenza di una donna si esauriva nella cura della casa e della famiglia e la pittura era ritenuta un’attività quasi esclusivamente riservata agli uomini.
Eppure il talento di questa giovane era di tale portata che il padre Orazio, anch’egli pittore di scuola caravaggesca, le insegnò come preparare i materiali, i colori, le tele e le permise di portare avanti un apprendistato che sarebbe poi culminato nella realizzazione di quella che viene considerata la prima opera di Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni.
Nel 1611 Orazio Gentileschi, che voleva che il talento di Artemisia si esprimesse in maniera completa, affidò ad Agostino Tassi l’incarico di insegnare la prospettiva alla figlia. Il Tassi era sì abile pittore, ma risultava anche coinvolto in vicende giudiziarie di un certo peso tuttavia Orazio, che lo conosceva personalmente e con lui collaborava, non riteneva di avere nulla da temere dall’amico, anche perché una donna di nome Tuzia era stata da lui accolta in casa come locataria proprio per controllare Artemisia in sua assenza.
Nel maggio del 1611 Tassi, con la complicità di Tuzia, riuscì a rimanere solo con Artemisia nella sua stanza e lì le usò violenza, promettendole poi un matrimonio riparatore secondo una consuetudine diffusa all’epoca. La violenza che Artemisia ha subito all’interno della sua casa era considerata infatti non un’offesa alla persona ma un danno alla morale e così il matrimonio riparatore era ritenuto un equo risarcimento alla famiglia della vittima.
Ma le promesse del Tassi, rinnovate di mese in mese e mai mantenute nonostante lui continuasse a pretendere da Artemisia quell’intimità riservata ai coniugi, erano destinate ad essere disattese perché l’uomo era ancora sposato con una donna che aveva lasciato a Livorno. Anche Orazio, subito informato da Artemisia della violenza, confidava nel matrimonio per salvaguardare il buon nome dei Gentileschi e quando seppe che Tassi era sposato decise di denunciarlo per lo stupro della figlia.
Nel processo, iniziato nel marzo del 1612 e conclusosi dopo sette mesi, Artemisia dovette difendersi dall’accusa di essere una ragazza attiva sessualmente da anni, che si concedeva con estrema facilità a tanti uomini, in sostanza una prostituta. La strategia del Tassi era finalizzata a far emergere come Artemisia fosse una giovane promiscua che accoglieva in casa chiunque, e per supportare la sua versione comprò diversi testimoni, tra cui quella stessa Tuzia che per Artemisia, rimasta orfana di madre a soli 12 anni, rappresentava l’unica figura femminile di riferimento. Lo stupro di una donna disonorata (così Tassi descrisse la giovane Artemisia) non era infatti penalmente perseguibile.
Ma nonostante il fango che il suo stupratore le gettò addosso, Artemisia non ritirò mai le accuse: si sottopose a una umiliante e invasiva visita ginecologica e a quella che veniva chiamata “tortura della Sibilla” perché il suo fine era proprio far dire la verità. Questa tortura era particolarmente dolorosa e soprattutto rischiosa per un pittore: le dita venivano strette con cordicelle fino a schiacciarle. Ma neanche in questo modo si riuscì a farle ritrattare la sua versione: Tassi l’aveva violentata e dopo aveva promesso di sposarla.
Il processo si concluse con la condanna del Tassi a cinque anni di prigione o in alternativa all’esilio da Roma; scelse ovviamente la seconda opzione ma non abbandonò mai la città.
Chi invece lasciò Roma, sposata a un pittore fiorentino, fu Artemisia. Il matrimonio fu voluto dal padre per ristabilire l’onore della famiglia, gravemente compromesso dal processo. Ancora una volta a decidere della vita della pittrice erano stati gli uomini.
A Firenze la Gentileschi si affermò autonomamente come pittrice e qui le vennero riconosciuti i suoi straordinari meriti: fu infatti la prima donna ad essere ammessa all’Accademia delle Arti del disegno. È indicativo che nelle opere risalenti al periodo fiorentino Artemisia utilizzò il cognome “Lomi” e non Gentileschi, a sottolineare la volontà di lasciarsi alle spalle la figura del padre, per tanto tempo ingombrante nella vita e nell’arte della donna. Dopo Firenze altre città la ospitarono, come Venezia e Napoli, e il suo successo fu tale che nel 1638 Carlo I, grande collezionista, la volle a Londra. E proprio a Londra si terrà in autunno la mostra Artemisia dedicata alla straordinaria pittora italiana.
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