Artemisia Gentileschi alla National Gallery di Londra

La mostra, intitolata semplicemente Artemisia e allestita alla National Gallery di Londra, aprirà i battenti in autunno e presenterà oltre trenta opere dell’artista italiana, in gran parte una vera e propria novità per il pubblico inglese. Provenienti da tutto il mondo, i dipinti ripercorreranno l’itinerario artistico di questa donna che seppe sfidare le convenzioni dell’epoca e riuscì ad affermarsi come pittrice a livello nazionale e internazionale, assicurandosi prestigiose committenze e stringendo amicizia con le personalità più illustri dell’epoca, come Galileo Galilei.

I quarant’anni dell’attività della Gentileschi saranno illustrati attraverso i luoghi che la videro protagonista: Roma, Firenze, Venezia, Napoli, Londra.

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Saranno esposti, tra gli altri, l’Autoritratto come martire, l’Autoritratto come suonatrice di liuto e l’Autoritratto come Santa Caterina di Alessandria, oltre alle due celebri tele di Giuditta che decapita Oloferne, quella di Napoli e quella di Firenze.

La parte conclusiva della mostra alla National Gallery sarà dedicata al viaggio che la Gentileschi fece a Londra dove raggiunse il padre per assisterlo nei suoi ultimi mesi di vita.

Anche cinque lettere appartenenti all’archivio di casa Frescobaldi faranno parte della mostra alla National Gallery: quattro indirizzate da Artemisia all’amante Francesco Maria Maringhi e una del marito della pittrice, Pierantonio Stiattesi, indirizzata sempre al Maringhi.

Mostrerò alla tua illustre signoria cosa può fare una donna: storia di un talento

[…] Nata nel 1593, a Roma, di famiglia pisana. Figlia di Orazio, pittore eccellente. Oltraggiata, appena giovinetta, nell’onore e nell’amore. Vittima svillaneggiata di un pubblico processo per stupro. Che tenne scuola di pittura a Napoli. Che s’azzardò, verso il 1638, nella eretica Inghilterra. Una delle prime donne che sostennero colle parole e colle opere il diritto al lavoro congeniale e a una parità di spirito fra i due sessi.

Anna Banti: Artemisia

Artemisia apprese dal padre, Orazio Gentileschi, esponente del caravaggismo romano, l’arte di preparare i materiali e i colori e la unì a un talento così straordinario che il padre si convinse a farla lavorare nella bottega di famiglia, frequentata anche dal Caravaggio. La prima opera ufficiale della pittrice è Susanna e i vecchioni del 1610 e lo stesso soggetto verrà ripreso più di quarant’anni dopo, nel 1652 (entrambe le opere saranno esposte nella mostra londinese).

Nel 1611 il maestro di prospettiva e amico di famiglia Agostino Tassi la stuprò e promise un matrimonio riparatore che però non avvenne; Artemisia lo denunciò e testimoniò sotto tortura l’abuso subito. Anche se il Tassi fu condannato, l’umiliazione pubblica subita durante il processo spinse Orazio Gentileschi a trovare alla figlia un marito, il pittore fiorentino Pierantonio Stiattesi. E così la pittrice lasciò Roma per Firenze, dove fu la prima donna ad essere ammessa nell’Accademia degli artisti.

Dipingerò quadri potenti: le donne di Artemisia Gentileschi

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La forza e la determinazione di Artemisia Gentileschi emergono anche nella volontà di utilizzare la sua arte come riscatto nei confronti del mondo maschile che la voleva ai margini. Non scelse le rappresentazioni convenzionali nelle quali altre pittrici si cimentavano, ma i grandi temi storici e biblici, appannaggio degli uomini. Ed ecco allora le sue eroine stagliarsi sulla tela, Cleopatra, Susanna, Giuditta e le altre, non vittime ma protagoniste.

Padrona della pittura, dimostra di aver assimilato la lezione del Caravaggio nel sapiente contrasto tra forme e colori e nella drammatizzazione del rapporto con lo spettatore attraverso il taglio ravvicinato, e di essere in grado di esplorare il tema del conflitto in una forma poetica che non si riduce all’esperienza autobiografica. La sua Giuditta che taglia la testa a Oloferne, ad esempio, non si preoccupa del sangue che zampilla dalla ferita, non teme di macchiarsi le vesti, è risoluta nel suo agire.

Artemisia Gentileschi capovolge attraverso le sue figure femminili i ruoli imposti da una società dominata dagli uomini, denuncia la marginalità riservate alle donne nel mondo dell’arte e lo fa servendosi della sua stessa arte, rendendo così la sua denuncia immortale.

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Scriveva così la pittrice in una lettera: «Sulla tela vendicherò il mio stupro. Datemi un esercito, che voglio combattere; datemi un campo di battaglia e sentirete lo schianto della mia forza contro la sua mitezza; il clangore della mia violenza contro il bisbiglio della sua bontà da sacrestia. Datemi una guerra, perché a 21 anni possiedo armi già ben forgiate, spade da affondare nella lussuria di principi e cardinali in forma di Cleopatre, Lucrezie, Veneri e Susanne; picche da infilzare nelle perversioni dei miei committenti a guisa di Giuditte, Maddalene e Giaele. Tutti desiderabili nudi di donne cui infliggere torture o da cui ricevere dolore: questo mi hanno fatto gli uomini, questo io voglio restituire alla loro impudica bramosia. […] Mi farò vendetta con la pittura, dipingerò quadri potenti come nemmeno ho visto fare a Caravaggio quando frequentava mio padre. La conosco la sua Giuditta che taglia la testa a Oloferne: l’ho rifatto uguale il movimento delle braccia, ma la mia eroina non ha quell’espressione schifata nel momento di far zampillare la vena giugulare né tira indietro il busto per paura di sporcarsi l’abito. Io affonderò la mia spada con voluttà. Dove siete, pittorucoli? Io posso uccidere e sgozzare il più grande dei vostri campioni con le vostre stesse armi che considerate maschili. Io, la figlia di un farabutto, la disonorata da un delinquente, io non voglio che mi sia concesso dipingere, io lo farò e basta, solo perché sono brava».

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