Uno degli interrogativi più pressanti dopo le stragi di Bruxelles è perché il Belgio. Perché i terroristi hanno deciso di colpire la capitale del piccolo paese europeo e, soprattutto, perché non sono stati fermati dopo mesi di massima allerta e i fatti di Parigi? Quello che è avvenuto il 22 marzo era nell’aria: lo ha detto lo stesso premier belga, Charles Michel, a ridosso degli attacchi. Il nucleo che ha colpito nella capitale francese aveva legami diretti a Bruxelles. Qui ha organizzato gli attacchi, qui i fuggitivi si sono rifugiati per mesi, qui sono stati trovati i loro arsenali e le armi che hanno fatto centinaia di vittime per le strade parigine e in quelle della capitale belga. Cerchiamo di capire perché Bruxelles.
La città è stata scelta non a caso. Sappiamo che il primo obiettivo dei terroristi erano le centrali nucleari, ma il piano è saltato per le operazioni di polizia che hanno portato all’arresto di Salah Abdeslam. Così hanno puntato sull’aeroporto e sulla metro, colpendo due luoghi simbolo dello stile di vita occidentale e scegliendo di arrivare fino al cuore della città, vicino ai palazzi del potere europeo.
In un colpo solo, gli jihadisti hanno preso di mira la capitale dell’Europa e il modo di vivere dell’Occidente “nemico” dell’Islam. Come è nato tutto questo odio nei confronti del Paese? E come è possibile che, nonostante tutte le avvisaglie, nessuno li abbia fermati?
La patria dei foreign fighters
Ormai abbiamo imparato a conoscere chi sono i foreign fighters. Il Belgio è il paese europeo che ne ha prodotti in maggior numero, non solo a livello assoluto ma anche a quello relativo. Solo nel 2014, ancora prima che si scatenasse l’orrore di Parigi, il Centro Internazionale per lo Studio della Radicalizzazione e della Violenza aveva calcolato Bruxelles aveva fornito 40 combattenti per ogni milione di abitanti. Il rapporto dei servizi di sicurezza e di intelligence The Soufan Group (Tsg) di New York, pubblicato a dicembre 2015 e relativo alle partenze tra giugno 2014 e novembre 2015, ha calcolato 500 foreign fighters belgi partiti per l’Iraq e la Siria nell’ultimo anno. Interi quartieri di Bruxelles sono a maggioranza musulmana: Molenbeek ha il 41,2% della popolazione di fede islamica ed è qui che si sono nascosti i terroristi di Parigi, per mesi.
La radicalizzazione
Il Belgio ha il 20% della sua popolazione (circa 11 milioni) di musulmani. La maggior parte sono immigrati di seconda o terza generazione, ma l’integrazione non sempre ha funzionato. Come per le banlieue parigine, in Belgio ci sono interi quartieri, spesso di periferia, in cui vivono quasi solo famiglie di fede musulmana da diverse nazioni, dal Maghreb e dal Medio Oriente. Le differenti correnti religiose come le diverse radici hanno creato una frammentazione anche all’interno della stessa comunità che spesso lascia sfuggire i più giovani, facili prede delle personalità più radicalizzate. Al senso di esclusione, spesso si associano povertà, disoccupazione e quella voglia di ribellione tipica dei più giovani che sfocia in una netta contrapposizione con l’Islam tradizionale delle loro famiglie. I foreign fighters si radicalizzano e partono per la Siria o l’Iraq a insaputa dei parenti: rifuggono le moschee e si rivolgono al web dove trovano vie di fuga al loro senso di disorientamento.
Tra al Qaeda e l’Isis
Nella foto Muriel Degauque
Il rapporto tra jihadismo e Belgio ha radici più profonde e più lontane nel tempo, almeno dagli anni Ottanta. È da al Qaeda che il piccolo paese europeo produce jihadisti, come ha ricordato Gianmarco Volpe, giornalista dell’agenzia Nova e analista politico, in un’intervista a GQ: la prima spia dell’Occidente a infiltrarsi tra gli uomini di al Qaeda era Omar Nasiri, marocchino di origine ma di nazionalità belga. Da allora, i legami si sono moltiplicati. È belga la prima donna europea a farsi saltare per aria in nome della jihad. Muriel Degauque era nata a Monceau-sur-Sambre, municipio di Charleroi (la città dove i terroristi di Bruxelles avevano pianificato le stragi di Parigi prima di farsi esplodere nella capitale belga). Proprio qui si era radicalizzata: il 9 novembre 2005 muore nell’attacco suicida a Bakouba, in Iraq, contro un convoglio militare.
La frammentazione
Tutto questo però non spiega perché il Belgio non abbia fatto nulla per fermarli. All’indomani delle stragi di Bruxelles, i servizi segreti e gli apparati di sicurezza sono stati messi sotto accusa, tanto che i ministri della Giustizia e dell’Interno hanno presentato le dimissioni, respinte dal governo. È la struttura stessa del Paese a rendere tutto difficile. Se c’è una cosa che gli anni del terrorismo e la lotta alle mafie ha insegnato all’Italia è che solo con uno Stato unito si può pensare di vincere (se poi possa bastare è un altro discorso). Invece, il Belgio è una nazione divisa: è uno stato federale dove coesistono le Fiandre (divise tra comunità di lingua olandese e la Vallonia francofona), la regione centrale di Bruxelles (che è bilingue) e ai confini con la Germania vive la comunità germanofona. Ogni stato federale ha la sua polizia, a sua volta divisa in più corpi. Solo la città di Bruxelles conta sei dipartimenti di Polizia e 19 municipi, con tanto di sindaci e governo locale. In più, non esiste una legislazione specifica per il terrorismo. Chi è nato in Belgio è a tutti gli effetti un belga e non può essergli tolto il passaporto anche se di ritorno dalla Siria o dall’Iraq, come successo anche ai kamikaze di Bruxelles.
L’Europa che non esiste
A tutto questo si aggiunge la frammentazione dell’Europa che non si è mai dotata di una struttura unica per la lotta al terrorismo. Le polizie nazionali non collaborano tra di loro perché non hanno strumenti comuni e leggi che li obbligano. Salah Abdeslam, dopo le stragi del 13 novembre, passò indenne la frontiera con il Belgio perché i poliziotti non sapevano chi fosse. Dopo l’orrore di Bruxelles qualcosa potrebbe muoversi: non sarebbe mai troppo tardi.
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