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Avvocato o avvocatessa, qual è la forma corretta?

Avvocato o avvocatessa, qual è la forma corretta? Come tutte le lingue anche l’italiano non è solo un sistema – ben preciso – di regole sintattiche e grammaticali: essendo influenzato dai parlanti è un insieme in continua evoluzione. A determinare la nascita e l’uso di questa o quella parola, infatti, spesso intervengono fattori che esulano dalla sfera linguistica, come cambiamenti di natura politica, trasformazioni sociali e nuove abitudini culturali.

Dal punto di vista linguistico, il dilemma tra avvocato o avvocatessa si risolve, in italiano, in maniera piuttosto semplice visto che, sul corrispondente femminile di alcuni termini di professioni, le regole grammaticali risultano chiare: eccezion fatta per ‘dottoressa‘ e ‘professoressa‘, è più corretto lasciare al maschile la parola che indica la professione, anche se questa è svolta da una donna. In caso di avvocato o avvocatessa, dunque, è preferibile lasciare il termine declinato al maschile; la forma corretta perciò è la prima, avvocato.

Sebbene sia preferibile la forma maschile, questo sostantivo dispone, però, di due corrispondenti femminili: ‘avvocata‘, di uso non comune e con accezione ironica e scherzosa (tranne se attribuito alla Vergine – ‘avvocata nostra’ – inteso come ‘protettrice’ e ‘mediatrice’); e ‘avvocatessa‘, ampiamente utilizzato per indicare, come riporta Treccani,’ sia la donna che esercita la professione, sia la moglie dell’avvocato; diversamente, può acquistare una sfumatura scherzosa quando sia riferita a donna dalla parlantina sciolta e risoluta nel sostenere le ragioni proprie o altrui’.

Tuttavia, come dicevamo all’inizio, la questione su quale sia la forma corretta, avvocato o avvocatessa, è strettamente legata ai cambiamenti avvenuti in determinate sfere professionali. Essendo cioè sempre più numerose le professioniste che occupano ruoli di rilievo – avvocati, questori, presidenti, ministri – sembra imporsi la necessità di ‘creare’, in corrispondenza del termine maschile, un titolo analogo declinato al femminile: questore/questora, ministro/ministra, architetto/architetta, deputato/deputata e via di seguito.

Se consideriamo la lingua come un sistema in fieri influenzato dall’uso comune dei parlanti, il ‘futuro’ di alcuni termini sembra volgere, a parer di molti, verso una declinazione anche femminile: la stessa Accademia della Crusca si è espressa a tal proposito, legittimando ‘l’opportunità di usare il genere grammaticale femminile‘ anche per quei ‘ruoli istituzionali (la ministra, la presidente, l’assessora, la senatrice, la deputata ecc.) e professioni alle quali l’accesso è normale per le donne solo da qualche decennio (chirurga, avvocata o avvocatessa, architetta, magistrata ecc.)’. Cosa che, del resto è accaduta per altri mestieri e professioni tradizionali come l’operaia, l’infermiera, la cameriera, etc).

Non manca, naturalmente qualche perplessità: come spiega molto bene il linguista, nonché socio della Crusca, Luca Serianni, ‘al di là dell’uso di alcuni giornali (non di tutti!), più sensibili al “politicamente corretto”, nella lingua comune forme del genere sembra non siano ancora acclimatate e, anzi, potrebbero essere oggetto d’ironia. Sul loro successo incide negativamente anche il fatto che molte donne avvertano come limitativa la femminilizzazione coatta del nome professionale, riconoscendosi piuttosto in una funzione o una condizione in quanto tale, a prescindere dal sesso di chi la esercita’.

Insomma, tra avvocato o avvocatessa, la regola generale preferirebbe la variante maschile, benché l’istituzione più autorevole per la salvaguardia dell’italiano, l’Accademia della Crusca, ne abbia legittimato anche l’uso al femminile. Si tratta di termini nuovi, spiega Cecilia Robustelli, docente di Linguistica italiana all’università di Modena e consulente della Crusca, che risultano poco familiari e di conseguenza sembrano difficili da usare’. In più, in molti ignorano il fatto che si tratta di termini italiani corretti. ‘Credo, commenta ancora la Robustelli, che questa resistenza riveli, specialmente da parte degli uomini, una diffidenza ancora diffusa ad accettare il riconoscimento di uno status sociale di piena dignità socio-professionale per le donne e, in termini più generali, una profonda resistenza a mutare i modelli di genere tradizionali. Da parte delle donne, invece, temo che la preferenza per i titoli professionali di genere maschile risieda nella convinzione che il titolo maschile ”valga di più” di quello femminile’.

Caterina Padula

Giornalista pubblicista, appassionata di scrittura, mi occupo da anni di approfondimenti culturali e di informazione online. Da sempre lettrice accanita e curiosa, amo la musica, l'arte e tutto ciò che è natura.

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