C’è un dramma silenzioso che sta mietendo vittime tra donne e bambini dell’Est Europa, colpiti nei loro affetti più cari in maniera così profonda da arrivare fino al gesto estremo del suicidio. È la sindrome Italia, forma di depressione che colpisce le badanti arrivate nel nostro Paese per prendersi cura delle nostre famiglie dopo aver lasciato in patria i propri figli che, a loro volta, diventano orfani bianchi. I due fenomeni sono intrecciati tra loro: da una parte ci sono mamme e padri che lasciano l’Est Europa per venire a lavorare in Italia, dall’altra i loro figli, affidati ai parenti o messi in orfanotrofi. La separazione è così lacerante che talvolta i bambini si suicidano così come le loro mamme, in una spirale di dolore difficile da spezzare.
Le pagine di cronaca talvolta aprono uno squarcio su questo mondo poco noto eppure così vicino a noi. Secondo i dati Censis sono circa 1,6 milioni le badanti attive in Italia, per la maggior parte provenienti dall’Est Europa, in particolare da Romania, Moldavia e Ucraina.
Complice una serie di fattori, il dato è in continua crescita e le stime fatte da Censis e Fondazione ISMU, nel 2030 si arriverebbe alla presenza di 2 milioni e 151mila badanti straniere nel nostro Paese. Quello che però i numeri non raccontano è la sofferenza di genitori e figli, madri e bambini costretti a stare lontani, chi ad allevare i figli di altri e chi a crescere senza la madre.
La sindrome Italia nelle badanti
La sindrome Italia è una forma di depressione che colpisce le badanti straniere nel nostro Paese. Il fenomeno è noto agli psicologi da anni: i primi a individuarlo furono Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych, due psichiatri ucraini, che nel 2005 notarono un quadro clinico particolare nelle donne rientrate in patria dopo un’esperienza di lavoro come badante in Europa occidentale, nello specifico in Italia, da dove proveniva la maggior parte. Ai sintomi tipici della depressione (tristezza, stanchezza, inappetenza, insonnia e anche fantasie suicide) si erano aggiunti problemi nuovi, con un profondo senso di solitudine e di rifiuto del presente, a cui si accompagnava una “scissione identitaria”, per cui le donne non sapevano più a che famiglia appartenevano.
“È una forma di depressione molto profonda e rischiosa che può portare anche al suicidio: colpisce solitamente le donne al ritorno nel loro paese, quando non ritrovano più il loro posto in famiglia“, lo definì Silvia Dumitrache, presidente dell’Adri (Associazione donne romene in Italia) in un’intervista su Linkiesta. La situazione di dolore nasce dal paradosso di doversi occupare dei figli di altri mentre i propri sono soli, a chilometri di distanza, in un paese straniero: al rientro a casa queste donne non sanno come affrontare la separazione e le domande dei figli per cui hanno sacrificato tutto, anche il tempo insieme, pur di garantire un futuro migliore.
Gli orfani bianchi, quei bimbi lasciati soli
Per una donna che parte c’è quasi sempre una famiglia che perde un pezzo fondamentale, figli che non hanno più la mamma o il papà accanto a loro: sono i cosiddetti orfani bianchi. Secondo i dati Unicef, sarebbero almeno 350mila in Romania, 100mila in Moldavia: il 75% delle donne che partono da Bucarest per venire a lavorare in Italia come badanti ha figli in tenera età, come ha evidenziato l’Adri e la ong Soleterre in occasione di un convegno tenuto nel 2014. Dei 750mila bambini che hanno un genitore che lavora all’estero, l’80% si ammala gravemente di nostalgia con conseguenze spesso tragiche: nel 2008 40 bambini romeni si sono tolti la vita, dato probabilmente in difetto rispetto all’entità del fenomeno.
Per aiutare le mamme e i loro figli lontani l’Adri ha ideato il progetto “Te iubeste mama!“, dal rumeno Mamma ti vuole bene con cui l’associazione cerca di costruire una rete il più capillare possibile e dotare di strumenti e connessioni per poter usare Skype e videochiamate anche nei più piccoli paesi della campagna rumena.
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