Le conseguenze del voto sulla Brexit sono ancora tutte da chiarire. La vittoria dei Leave era stata presa sotto gamba da tutti, a partire dagli inglesi che ora iniziano a fare i conti con la decisione di lasciare l’Unione Europea. Cosa succederà da ora in poi è un dato in continua evoluzione: il voto ha di fatto diviso il paese tra il Nord (Scozia e Irlanda del Nord) che vuole rimanere in UE, e il Sud (Inghilterra e Galles) che ha votato in massa per il Leave, con Londra e Gibilterra che hanno registrato i maggiori picchi a favore del Remain ma che devono adeguarsi al risultato nazionale. La Brexit ha scosso anche la politica inglese: i conservatori sono alla ricerca di un nuovo leader dopo le dimissioni di David Cameron, che ha voluto il referendum per poi perderlo, mentre i laburisti attaccano Jeremy Corbyn, colpevole di essere rimasto troppo “freddo” per la campagna per il Remain e ne chiedono le dimissioni. Cerchiamo di capire cosa succederà dopo la Brexit.
Prima di iniziare, facciamo il punto della situazione a ridosso del voto. Nel Regno Unito il fronte del Remain non vuole cedere tanto che una petizione per rifare il referendum in meno di tre giorni ha toccato quota 3,6 milioni di firme. Il voto del 23 però non è vincolante a livello legislativo perché è un voto consultivo e solo il Parlamento può renderlo ufficiale con una ratifica. L’iter non è ancora iniziato e, dalle dichiarazioni che arrivano d’oltremanica, il rischio è che si ritardi la decisione il più possibile, cosa che all’Europa non va giù. Le istituzioni di Bruxelles e i paesi fondatori hanno infatti chiesto di fare in fretta anche perché non sarà un “divorzio consensuale”, per usare le parole di Jean-Claude Juncker.
La Gran Bretagna è uscita davvero dall’Unione Europea?
SÍ. Ma non subito. Come abbiamo già spiegato, il referendum del 23 giugno era di tipo consultivo e serviva per dare voce al popolo britannico. La decisione è stata presa con la vittoria del Leave e ora dovrebbe partire l’iter per renderla ufficiale (il condizionale è d’obbligo, come vedremo). I tempi, come avevamo spiegato qui, sono molto lunghi. Ci vorranno non meno di due anni (ma c’è chi pensa anche qualcuno di più) per rendere operativo il voto sulla Brexit. Il parlamento deve ratificare il voto e il primo ministro deve chiedere l’applicazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona alla Commissione Europea. Solo a quel punto, partono le trattative per modificare gli accordi che legano l’UK all’UE. Se non si raggiunge una decisione a maggioranza (qualificata) entro il termine, possono esserci due opzioni: l’Europa vota per allungare i tempi o gli accordi cessano di colpo. Alla fine di tutto, serve anche il voto del Parlamento europeo: solo allora l’addio della Gran Bretagna dall’Europa sarà ufficiale.
La stampa scozzese a favore dell’iniziativa della premier, Nicola Sturgeon
La Scozia ha bloccato la Brexit?
NO. La Scozia fa parte a tutti gli effetti del Regno Unito e il fatto che, in tutte le circoscrizioni, abbia vinto il Remain, poco conta. La prima ministra e leader del Partito Nazionale Scozzese, Nicola Sturgeon, sta provando a porre un veto sul referendum Brexit e sta usando la carta dell’indipendenza da Londra per rimanere nell’Unione Europea. Lo ha detto in tutti i modi: la Scozia ha votato per rimanere e farà di tutto perché ciò accada.
La Scozia può bloccare la Brexit?
Dipende. La premier scozzese ha dichiarato che il Parlamento scozzese non ratificherà il voto sulla Brexit e che esaminerà tutte le opzioni con le istituzioni europee per mantenere il legame tra la Scozia e Bruxelles, ma da Londra sono arrivati duri commenti. Come spiega bene la Bbc, tutto risiede nel concetto di nazione e non di stato della Scozia. Come rappresentante della nazione scozzese, la Sturgeon rivendica il diritto di far valere la volontà del popolo (qui ha vinto ovunque il Remain). Gli unionisti e i leader inglesi del Leave le hanno fatto notare che il referendum del 2014 ha confermato la permanenza nel Regno Unito e che deve accettare il voto sulla Brexit, almeno finché non diventa uno stato indipendente. Stando così le cose, alla Scozia rimangono due opzioni:
A) accettare la Brexit e chiedere un secondo referendum sull’indipendenza dal Regno Unito, dopo il fallimento del voto di due anni prima. Per la premier, leader del partito indipendentista, sarebbe come prendere due piccioni con una fava: se riuscisse a indire il voto e a vincere, avrebbe una Scozia indipendente e potrebbe far richiesta di aderire all’Unione Europea.
B) bloccare la Brexit non ratificando il voto del referendum. Come ricorda la stampa scozzese, questo scenario sarebbe possibile grazie all’interpretazione dello Scotland Act del 1998, statuto creato dal Parlamento scozzese. L’articolo 29 permette al parlamento di legiferare per i settori per cui è responsabile e lo obbliga a fare in modo che nessuna legge sia incompatibile con quella europea. Secondo un’interpretazione quindi, toccherebbe al parlamento scozzese (e non a quello inglese) legiferare in materia di diritto comunitario. Secondo molti costituzionalisti però, in materia di diritto comunitario è Westminster ad avere la precedenza e ciò che viene deciso da Londra vale anche per Edimburgo.
Ci sarà un secondo referendum sulla Brexit?
NO. Su questo sono tutti concordi, stampa e politici. L’opzione circola da quando una petizione al parlamento inglese ha raggiunto 3,6 milioni di firme in meno di 72 ore. Il governo inglese è sceso in campo in prima persone e ha chiarito che non ci sarà un altro referendum. La petizione inoltre non chiede di ripetere il voto ma di votare una legge che renda validi i referendum solo se si è raggiunto il 75 percento dell’affluenza e una delle opzioni raggiunge il 60 percento (per la Brexit c’è stata un’affluenza del 72 percento e il Leave ha vinto per il 52 percento). Secondo la legge inglese, questa è una petizione popolare a tutti gli effetti, un po’ come le nostre leggi di iniziativa popolare, solo che qui si raccolgono le firme online. Perché diventi una legge a tutti gli effetti, la petizione deve essere presa in carico dalla commissione parlamentare, vagliata e poi sottoposta al voto dell’Aula.
Anche se tutto questo si realizzasse, il voto sulla Brexit sarebbe comunque valido perché la legge non è retroattiva (non riguarda cioè un voto avvenuto prima della sua approvazione). Il fronte del Remain non può fare altro che accettare il voto e imparare per il futuro: la petizione era online da maggio e, fino al 24 giugno, aveva raccolto solo 22 firme.
Angela Merkel
La Germania ci guadagna con Brexit?
SÍ. La cancelliera Angela Merkel ha un avversario in meno e potrebbe consolidare il peso tedesco nell’Unione. La Gran Bretagna ha avuto un rapporto difficile con Bruxelles soprattutto per alcune direttive arrivate da Berlino, a partire dal tema dell’immigrazione, la vera chiave del successo dei Leave. È stata la Merkel a sposare la politica di accoglienza chiesta da Italia e Grecia (che stanno affrontando da sole il dramma dei profughi) e a insistere perché la Commissione si accordasse con tutti i 28 per ridistribuire il carico dei migranti. Cameron ha lottato contro questa politica e lo scorso febbraio ha trattato direttamente con le autorità europee, strappando un accordo per una diversa gestione dei migranti, che sarebbe stato operativo solo con la vittoria del Remain.
Inoltre, pur non essendo nell’area euro, la Gran Bretagna aveva un peso economico enorme a livello UE (tanto da avere come ormai ex commissario, Jonathan Hill, responsabile della stabilità finanziaria, dei servizi finanziari e dell’Unione dei mercati dei capitali). Ora più che mai è la Germania l’economia di riferimento, unica forza trainante in un contesto che è sempre sull’orlo della crisi.
È vero che il Regno Unito doveva sottostare a pesanti imposizioni europee?
NO. Questo è stato uno degli argomenti più forti dei sostenitori anti UE che hanno mentito spudoratamente pur di convincere i britannici a votare Leave. Il sito infacts.org ha raccolto le bugie raccontate in campagna elettorale: eccole.
A) “Ogni settimana la Gran Bretagna invia a Bruxelles 350 milioni di sterline. Votando Leave, quei soldi andrebbero al sistema sanitario nazionale“. Doppio falso. Il Regno Unito paga meno perché vige ancora lo sconto ottenuto da Margaret Thatcher nel 1984 sui pagamenti (e Boris Johnson, thatcheriano di ferro, avrebbe dovuto saperlo). Tra lo sconto e quanto riceve l’UK dall’UE, il vero costo per ogni cittadino britannico è di 30 centesimi al giorno, “meno di una barretta di Mars“, fa notare il sito di fact-checking. Boris Johnson ha sostenuto che quei soldi sarebbero stati usati per il sistema sanitario ed è stato smentito in diretta tv dal suo primo alleato, Nigel Farage. I due si sono dimenticati di dire che sono gli immigrati a sostenere il costo della sanità perché lavorano e pagano le tasse, ed, essendo per lo più giovani, ne usufruiscono meno degli stessi britannici (in media più vecchi).
B) “L’Europa ha bisogno di noi più di quanto noi abbiamo bisogno dell’Europa“. Falso. L’ex sindaco di Londra ha sbandierato per mesi che la Germania voleva vendere le loro Bmw nel Regno Unito e che, senza l’UE, Londra avrebbe avuto accordi commerciali migliori. Quello che non ha detto è stata la verità, cioè che l‘esportazione verso l’Europa vale il 13 percento dell’economia britannica e che le importazioni dall’Europa solo il 3 percento. È vero l’esatto contrario: Londra aveva più bisogno dell’UE più di quanto l’UE aveva bisogno di Londra. Si è anche dimenticato di dire che molti marchi stranieri, come la Nissan, hanno aperto nel Regno Unito perché era la porta d’ingresso al mercato europeo. Ora toccherà a Francia e Germania.
C) “La Turchia farà presto parte dell’UE e quindi, i confini europei saranno a ridosso di Siria e Iraq“. Falso. La Turchia non aderirà così presto come hanno ripetuto i sostenitori del Leave. Prima di poter avere il sì, Ankara deve dimostrare di essere una moderna democrazia, rispettando 35 parametri imposti dai trattati, dai diritti umani all’economia: dal 1987, anno in cui ha fatto richiesta, il governo turco ne ha cambiato uno solo. Di questo passo, calcola InFacts, la Turchia entrerà in Europa nel 3002. In ogni caso, sarebbe bastato il veto di uno dei paesi già aderenti all’UE per bloccarne l’ingresso. Ora, anche volendo, la Gran Bretagna non potrà opporsi.
D) “Gli immigrati ci rendono più poveri e usano il welfare a nostre spese“. Doppio falso. I migranti europei hanno portato più ricchezza nel Regno Unito, creando più opportunità di lavoro e pagando tasse e pensioni al pari dei cittadini britannici. In realtà, sono gli europei, provenienti da 27 paesi, a sostenere il welfare britannico: sono loro che, essendo in media più giovani, usano sanità e sussidi di meno rispetto i britannici, pur pagando le stesse tasse. Un medico su dieci è di origine europea e ci sono interi ospedali che si reggono in piedi grazie al personale italiano, come avviene a Preston dove più di cento infermieri su 1.800 sono connazionali specializzati (nel reparto di pneumatologia 10 su 25 sono italiani).
E) “Siamo sempre in minoranza a Bruxelles“. Falso. Johnson, Farage &Co hanno ripetuto che la Gran Bretagna è sempre uscita sconfitta dalle votazioni in sede europea, dove è quasi sempre stata messa in minoranza. La verità invece è un’altra: dal 1999 a oggi è successo solo in 56 casi, mentre sono state 2.466 le vittorie inglesi nelle votazioni europee.
Barack Obama con David Cameron
Gli USA sono felici del risultato di Brexit?
SÍ. Il Regno Unito è l’alleato atlantico per eccellenza e ora che è libero dalle direttive europee può essere ancora più utile alla politica estera a stelle e strisce. Barack Obama e i democratici, Hillary Clinton in testa, hanno dichiarato che avrebbero preferito l’opzione Remain, mentre i repubblicani, guidati da Donald Trump, hanno celebrato la “ritrovata indipendenza”. In realtà, agli States l’uscita della Gran Bretagna va più che bene. Appena uscirà dai trattati europei, Londra sarà libera di aderire alle strategie militari delle prossime amministrazioni USA, inviando uomini e mezzi in tutto il mondo.
La speranza dei profughi a Calais: “Andiamo in UK”
La Brexit bloccherà l’immigrazione?
NO. E non è solo una questione di frontiere e libera circolazione. A questo proposito, lo stesso Boris Johnson ha detto che non cambierà nulla e che ci sarà ancora la libertà di circolare per gli europei, ma nulla è stato ancora deciso e l’UE potrebbe non voler più la libera circolazione dei cittadini britannici su territorio europeo.
Quello che gli anti UE hanno dimenticato di dire nella loro battaglia contro l’immigrazione (grazie alla quale, ricordiamolo, hanno vinto), è che la prima frontiera britannica è su territorio europeo, a Calais per la precisione. Persone provenienti dall’Africa o dal Medio Oriente percorrono migliaia e migliaia di km con una sola meta, il Regno Unito, ma vengono fermate all’estremo confine nord della Francia prima di imbarcarsi per Dover. Tra i due paesi vige un accordo, stipulato nel 2003 per cui la polizia britannica può fare controlli in terra francese e rimandare indietro i migranti prima ancora che questi tocchino suolo inglese, confinandoli nei campi (come la tristemente nota “Giungla di Calais”). Ora questo trattato non vale più, dicono le autorità locali. “Avete voluto uscire, ora gestiteli voi i vostri profughi“, ha già fatto sapere il sindaco della cittadina francese.
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