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Café anti Wi-Fi a New York, alla riscoperta di quiete e contatto umano nell’era di Internet

L’argomento non potrebbe essere più attuale: wi-fi nei locali, si o no? Ormai viviamo in un’epoca di ridondanza tecnologica, in cui si passa più tempo con lo smartphone e sui social network che con le persone in carne e ossa. Nella grande metropoli di New York si sta verificando però una sorta di “ritorno alle origini”, quando nei bar ci si incontrava per fare due chiacchere o leggere un buon libro, cartaceo. Molti locali hanno deciso di non offrire il servizio di wi-fi, la connessione senza fili gratuita (o al prezzo di una consumazione) che oggigiorno si trova quasi ovunque nei bar.

Si parla di ricercare una vita più lenta, meno frenetica e ricolma di ansie, recarsi al bar per “staccare la spina”, in questo caso quella del modem. I café della grande mela si sono divisi in due: i grandi brand come Starbucks o catene più piccole come Think Coffee e The Coffee Bean & Tea Leaf continuano a offrire la wi-fi, incoraggiando gli avventori addirittura a lavorare mentre si gustano un caffè, mentre i bar più piccoli, spesso ritrovi hipster “all’angolo”, hanno optato per l’eliminazione di questo servizio.. e sulla carta non ci hanno rimesso! Il fenomeno si sta espandendo a macchia d’olio in tutti gli Stati Uniti.

La pioniera del “no wi-fi”

Sarah McNally si potrebbe definire la pioniera del movimento “no wi-fi” newyorkese: nel dicembre 2004, impiegando l’eredità del nonno, la giovane aprì una libreria indipendente su due piani al 52 di Prince Street, chiamandola McNally Jackson, dal cognome di suo marito Christopher, con il quale condivideva la passione per i libri. Nel 2010 la giovane di origine canadese ha deciso di non offrire più il servizio wi-fi ai clienti della libreria, perché a detta sua il cafè si stava trasformando in un ufficio per freelance.

Nata come una decisione principalmente etica, per orientare al 100% l’interesse degli avventori nei confronti di libri e riviste, la scelta di Sarah si è rivelata anche strategica in termini di affari: «Non avevo l’obiettivo di migliorare le vendite, ma sono subito aumentate del 30 per cento», spiega.

Una vita disconnessi

Dall’esperienza di Sarah McNally tanti altri proprietari di café a New York hanno deciso di abbracciare il “movimento”, alcuni disattivando totalmente il wi-fi, altri offrendolo solo nelle ore più trafficate della giornata o nei weekend. Per Alessandra Veronessa, proprietaria del café Paradiso su Avenue B e 7th Street, la scelta è stata principalmente dettata da motivi economici: «Abbiamo provato per un anno a lasciare una connessione libera, ma c’erano cavi dei carica batterie ovunque, come se l’elettricità fosse inclusa nel prezzo di un cappuccino», racconta Alessandra, che spesso si è trovata a dover spegnere il wi-fi nelle ore di punta per permettere ai clienti senza laptop di pranzare seduti al tavolo.

Caroline Bell, proprietaria di Grumpy Café, ha optato per il “no wi-fi” e a questo divieto ha aggiunto quello di portare con sé un notebook in cinque dei suoi sei locali: «Con il tempo ci siamo però accorti che senza computer il coffee shop era più vivace, con i clienti che interagivano fra loro parlando, leggendo, scambiandosi il giornale o impegnandosi in giochi da tavolo. All’inizio alcuni si sono arrabbiati, ma tutto sommato è stata una decisione positiva per gli affari», spiega.

Né bianco né nero

Diversi locali però hanno deciso di mantenere, seppure per un tempo limitato, il servizio di wi-fi. E’ il caso del Coffee Bar di Luigi Di Ruocco a San Francisco, che ha introdotto il limite di mezz’ora per l’utilizzo della rete free e ha vietato l’uso del laptop in alcune aree del bar.
Il suo progetto, quando era partito nel 2007, era quello di aprire un locale che richiamasse clienti provenienti dal ricco mondo della tecnologia locale: «Non avevo previsto che le persone restassero così a lungo, impedendo agli altri di sedersi», ha detto Di Ruocco al San Francisco Chronicle.

Anche Los Angeles ha adottato questo tipo di politica “a metà”: a Silver Lake, il quartiere hipster di Los Angeles, il Lamill Coffee Boutique offre ai clienti il wi-fi per massimo due ore.

Il caso “August First”

Café e pasticceria a gestione familiare in Burlington, Vermont, l’August First di Jodi Whalen e del marito Phil Merrick ha fatto parlare di sé ultimamente proibendo l’uso di notebook e tablet nel locale. La decisione ha suscitato scalpore fra i clienti perché dall’apertura del locale nel 2009, i proprietari si sono sempre dimostrati molto “social” curando il profilo Twitter e la pagina Facebook del café.

Con il tempo però, si sa, le cose cambiano: «Quando fantasticavamo su come sarebbe stato August First», ha raccontato al Guardian la proprietaria del locale, «ci domandavamo se sarebbe stato un posto con sette clienti che fissano i propri schermi, oppure un luogo dove le persone sarebbero venute per incontrare qualcuno, chiacchierare e ridere».

Il motivo principale di questa scelta che molti amanti della modernità potrebbero definire “anti-tecnologica”, risiede nel fatto che molti clienti passassero ore lavorando al computer, restando al tavolo anche quattro ore ma spendendo circa 5 dollari l’ora, contro i 15 dell’avventore medio che occupa un tavolo per meno di un’ora. «Di questo passo non saremmo sopravvissuti come esercizio commerciale», ha detto la Whalen.

Io non ci sto

Un paragrafo a parte merita la “difesa”. Il giornalista Nick Bilton ha raccontato del suo scontro con un barista a Manhattan al Bits, blog tecnologico del New York Times: il dipendente avrebbe imposto a Bilton di spegnere il Kindle sul quale stava leggendo, mentre sorseggiava un cappuccino. Quando l’esperto di tecnologia ha fatto presente che il café vietasse espressamente l’uso dei computer, il cameriere ha ribattuto che l’apparecchio per la lettura di ebook avesse uno schermo e necessitasse di carica a corrente, quindi si trattava di un computer.

Stessa diatriba in un negozio di sandwich a Park Slope, dove Nick Bilton ha dovuto spegnere il suo iPad dove stava scrivendo appunti: «Apprezzo un locale che cerca di offrire una scappatoia dai computer e dalla rete», ha detto. «Dal momento però che gli ebook sono sempre più diffusi e in molti, studenti compresi, hanno rimpiazzato i libri di carta con la loro versione digitale, i café dovrebbero accettare che ormai i libri si leggono spesso attraverso gli schermi. Anche se sembrano computer».

Lenti come lumache: riscoprire la scrittura “a mano”

Una iniziativa sicuramente molto interessante è stata quella organizzata all’inizio di febbraio dal piccolo Daily Press Coffee di Bed Stuy, Brooklin. L’obiettivo dell’evento era riscoprire il piacere dello scrivere lettere a mano, in alcuni casi una vera e propria forma di arte. “Snail Mail Café”, questo il nome dell’incontro, ha prodotto 45 lettere scritte a mano e poi spedite dai clienti ai propri cari o amici.

Il successo è stato tale che ormai l’iniziativa si ripete ogni settimana, davanti a una tazza di caffè. Il materiale per scrivere viene offerto dal locale al prezzo di 7 dollari: «La partecipazione è in crescita, ma mi scrivono sempre più persone che non vivono a New York e non possono venire di persona.

Io li incoraggio a sedersi, prendersi dieci o quindici minuti e scrivere una lettera ovunque si trovino», racconta Sarah Bentley, l’ideatrice di Snail Mail Café, che vive il fenomeno disconnessione come un’avvento positivo, sintomo che le persone abbiano finalmente cominciato a capire quali possano essere le conseguenze negative di un utilizzo smodato di internet, smartphone e social network: il tempo passa troppo in fretta quando sei connesso e ci si isola facilmente, precludendo l’intimità.

Cecilia Casadei

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