Le ricerche incentrate sul cambiamento climatico si arricchiscono ogni giorno di più di nuovi lavori, che provano a guardare da prospettive insolite quella che è la più grande criticità ambientale dei nostri tempi: l’ultimo in ordine di tempo è uno studio pubblicato sulla rivista Nature realizzato dall’Università della California a San Diego, che utilizza come parametro la composizione delle nubi. A favorire l’estensione delle zone aride del pianeta infatti contribuirebbe anche lo spessore delle nuvole, che è aumentato un po’ ovunque sulla Terra, ed anche da ciò dipende la tropicalizzazione del clima registrata lì dove vigevano fino a non molto tempo fa fasce ben più temperate, come ad esempio nel sud Europa, nell’area del Mediterraneo dove si colloca anche il nostro Paese.
Il cambiamento di nuvole e clima è stato osservato dai satelliti tra il 1983 e il 2009, e coincide con i modelli utilizzati anche dallo studio californiano pubblicato su Nature per analizzare il riscaldamento globale, dimostrando scientificamente per la prima volta un assunto teorico che era stato già suggerito circa 10 anni fa dal mondo accademico. Ma cosa sta accadendo specificamente alle nuvole? Questi elementi naturali restano parzialmente un enigma per i climatologi, svolgendo una sorta di duplice funzione: da un lato il loro colore bianco funge da specchio dei raggi del Sole mantenendo fresco il pianeta, dall’altro la coltre nuvolosa blocca il calore della superficie terrestre impedendo di disperdersi nello spazio. Quando la sommità delle nubi è molto alta, le precipitazioni dovrebbero essere mediamente più intense, ma in questa fascia tropicale allargata, tale copertura nuvolosa si sarebbe ridotta in superficie del 13 per cento negli ultimi 25 anni, esattamente il medesimo lasso di tempo che ha visto imprimere una forte accelerazione ai cambiamenti climatici.
Adesso è stato dunque confermato che dai 23 gradi di latitudine dei due Tropici del Cancro e Capricorno, si sarebbe arrivati attorno ai 40: a tale fenomeno potrebbero essere imputate tanto le ondate di siccità registrate negli Usa, Australia e in parte anche in Italia, quanto il formarsi di uragani a latitudini inusuali rispetto al passato. I ricercatori californiani sostengono che a contribuire a questa mutazione vi è anche anche l’esaurimento dell’effetto delle due ultime grandi eruzioni della Terra, il messicano El Chichón nel 1982 e quello filippino Pinatubo nel 1991, le quali avrebbero aiutato a rinfrescare l’atmosfera ricoprendola di un velo di polveri che riflettevano il calore dei raggi solari. Paradossalmente se avvenisse un’eruzione di questo tipo si potrebbe arrestare almeno parzialmente l’effetto dei cambiamenti climatici, come osservano i ricercatori in conclusione del loro lavoro: ‘Ci aspettiamo che la crescita dei gas serra faccia proseguire anche in futuro queste trasformazioni delle nuvole. A meno che non arrivi un’altra grande eruzione imprevista‘. Che la salvezza del pianeta passi per un’eruzione vulcanica distruttiva pare davvero una beffa del destino.
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