Hai cancellato dagli amici di Facebook un tuo collega? Rischi di essere accusato di mobbing. Il precedente è stato creato in Australia dove il tribunale del lavoro (la Fair Work Commission) ha additato di comportamento irragionevole e mancanza di maturità emotiva tale Lisa Bird nei confronti della collega Rachel Roberts con la quale divide l’ufficio di agenzia immobiliare. Lisa aveva infatti eliminato dalla lista Rachel dopo che era andata a lamentarsi dal proprietario (nonché marito della Bird) perché le case che aveva in vendita non erano adeguatamente pubblicizzate sulla pagina FB aziendale. In realtà, questo episodio è stato riconosciuto come mobbing unito anche a una serie di comportamenti scorretti della collega/rivale. Ad ogni modo è significativo che sia stato riconosciuto come degno di nota per aver contribuito a causare ansia e depressione.
Ma non è finita qui: perdi troppo tempo su Facebook durante l’orario di lavoro oppure sei protagonista di esternazioni non così simpatiche sui tuoi superiori? Forse più semplicemente sei sempre in chat a messaggiare con i tuoi amici invece che compilare report o, insomma, compiere ciò per cui sei stipendiato? Ebbene, recentemente la Cassazione ha decretato che sia legittimo per il tuo datore spiarti sui social network, nel caso anche utilizzando un account con una falsa identità così da non lasciar trasparire chi è veramente. Questo comportamento sarà dunque ammesso perché non ha “ad oggetto l’attività lavorativa e il suo esatto adempimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente” già “manifestatisi” in precedenza.
Il caso che ha creato il precedente arriva dall’Abruzzo. I supremi giudici della Cassazione hanno infatti respinto una causa che era stata intentata per un presunto non corretto licenziamento per giusta causa avanzato da un operaio addetto alle presse di una stamperia. Si era infatti allontanato dalla postazione di lavoro per chattare su Facebook per un quarto d’ora in un primo giorno e poi aveva ripetuto il comportamento anche nei giorni a seguire, sempre sul social network più famoso del mondo. Non pago, aveva anche mantenuto un iPad acceso e in costante collegamento con la rete elettrica nel suo armadietto.
LE DIECI COSE CHE FAI DI NASCOSTO SU FACEBOOK
Ma come fare per avere le prove di questo “reato”? L’azienda aveva deciso di aprire un falso profilo su Facebook con la foto e tutte le informazioni personali relative a una donna immaginaria, dietro alla quale si trovava nientemeno che il responsabile del personale col compito di adescare, letteralmente, l’operaio per andare a presentare le evidenze delle violazioni delle disposizioni aziendali sulla sicurezza delle fasi di lavorazione e degli impianti. Ma tutto questo non va a violare lo statuto dei lavoratori?
FOTO FIGLI SU FACEBOOK? OCCHIO
Secondo l’operaio sì, infatti si è rivolto alla giustizia. Secondo l’azienda no perché mancava “di continuità, anelasticità, invasività e compressione dell’autonomia del lavoratore”. La Sezione lavoro della Cassazione ha deciso per la legittimità con la sentenza 10955 che farà storia. La motivazione parla di correttezza dei controlli “ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo”, a patto che non siano “eccessivamente invasive” e siano “rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti”. Occhio dunque, anche se una bella moretta vi contatta su Facebook durante l’orario di lavoro dietro potrebbe esserci la figura imponente, virile e con voce baritonale del responsabile del personale della vostra azienda.
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