Forse il suo nome è già stato dimenticato da molti, ma il padre, Paolo Picchio, sta facendo di tutto perché non ci siano altre Carolina Picchio. La sua vicenda sconvolse l’Italia. Tre anni fa Carolina era una ragazzina di 14 anni con tutta la vita davanti a sé: il 5 gennaio 2013 si suicidò gettandosi dal balcone al terzo piano della casa di suo papà a Novara perché “non ce la faceva più“. A una festa era stata ripresa, ubriaca e non cosciente, mentre quelli che doveva essere degli “amici” mimavano gesti sessuali su di lei: il video era stato postato su Facebook, straziandole l’anima. Al social network Carolina aveva affidato le sue ultime parole, quel “non ce la faccio più” che, ancora oggi, risuona nelle orecchie del padre Paolo. Carolina è la prima vittima italiana riconosciuta del cyberbullismo. Da quel giorno Paolo Picchio ha intrapreso la sua personale battaglia contro i cyber bulli perché non ci siano altre Carolina. Lo abbiamo raggiunto all’indomani della prima fase del processo contro i bulli responsabili del suicidio della figlia.
Come procede il processo per la morte di sua figlia Carolina?
I cinque ragazzi, all’epoca dei fatti minorenni, si sono dichiarati tutti colpevoli e quindi hanno ammesso le loro colpe e si sottoporranno a un percorso rieducativo che sarà stabilito dal Tribunale dei minori. Il ragazzo che, invece, aveva compiuto 18 anni da un paio di mesi ha chiesto il patteggiamento e il giudice si è riservato di decidere.
Si ritiene soddisfatto dall‘andamento del processo?
La giustizia ha fatto il suo corso, ma ovviamente qualsiasi pena non mi darà la soddisfazione e men che meno mia figlia. L’importante è che quello che è successo possa segnare il futuro. Questo è, infatti, il primo vero processo che si svolge in Italia sul fenomeno del cyberbullismo. Come dico sempre, purtroppo è stata mia figlia a dover avviare una serie di percorsi affinché il fenomeno, che era rimasto un po’ sotto le ceneri, esplodesse.
Percorso che io ho avuto la fortuna di condividere con la senatrice Elena Ferrara, che era la sua insegnante e che, successivamente, è stata eletta in Parlamento. È stata lei a capire che l’unica soluzione sarebbe stata un disegno di legge, poi passata all’unanimità al Senato ma ora ferma alla Camera.
La lotta al cyberbullismo, infatti, deve coinvolgere, oltre al sistema educativo e formativo della scuola, rendendo gli insegnanti capaci di cogliere i segnali, anche vari soggetti: il Ministero della Sanità, perché sia vittime che bulli devono essere recuperati dal punto di vista psicologico; il ministero dell’Interno, con la Polizia Postale che in questi anni ha fatto un lavoro encomiabile. Ma anche gli operatori del settore, perché gli stessi Facebook e Google si rendono conto che il fenomeno sta creando non pochi problemi anche per loro.
Proprio perché ci sono tante entità che devono dare delle risposte, speriamo positive, è necessaria una legge che possa concertare tutte queste risorse.
Paolo Picchio con la senatrice Elena Ferrara e Paola Capozzi, comandante del compartimento Polizia Postale
Lei parla della necessità di rieducare anche i bulli, ma – da padre di una vittima – crede nella possibilità della rieducazione?
Il problema coinvolge l’educazione a partire dai genitori perché, quando si parla di minorenni, la responsabilità è dei genitori a livello civile e penale. Dobbiamo coltivare i ragazzi di oggi, che saranno i genitori di domani, affinché capiscano che determinati comportamenti diventano reato.
Al momento, secondo le statistiche, l’80% dei genitori ritiene alcuni comportamenti soltanto “ragazzate” e, quindi, sono convinto che soltanto quando vedranno le fedine penali, loro e dei loro figli, sporcarsi capiranno la gravità del fenomeno.
Ha mai provato a mettersi nei panni del padre di un bullo?
Sì, anche se sono convinto che il padre del bullo ignori totalmente quello che fa il figlio. Una volta c’era la famiglia patriarcale, mentre oggi il genitore è evaporato. I genitori oggi sono gli ultimi a venire a conoscenza del problema della vittima ma anche del bullo. Per questo la prima frontiera devono essere i ragazzi che devono ghettizzare il bullo, allontanarlo.
Qual è stata la reazione dei genitori degli imputati?
Uno solo è venuto a scusarsi, gli altri non mi hanno mai parlato. Non so neanche se i genitori siano convinti che quanto è successo sia colpa dei loro figli. Forse non hanno letto neanche gli atti della Procura.
Chi era sua figlia, Carolina Picchio?
Mia figlia era la mia unica gioia. Era molto forte dal punto di vista morale e psicologico e mai avrei immaginato che avrebbe potuto fare una cosa del genere. Era una bella ragazza, intelligente, sportiva, serena. Aveva una sola fragilità: era pudica. Quando quei ragazzi hanno reso pubblico un suo comportamento, non voluto ma costruito da loro, è nato in lei un senso di frustrazione che non è riuscita a superare.
Il fatto che io fossi in casa quella sera e non ho sentito nulla mi ha stravolto. L’unica possibilità per me, a quel punto, è stata darmi una motivazione di vita ed è stata lei a darmela. Mi ha fatto una specie di testamento: “Lo faccio perché gli altri capiscano il male che fanno, che le parole fanno più male delle botte”.
Da quel giorno mi domando sempre cosa sarebbe successo a mia figlia e a quei cinque ragazzi, se lei avesse avuto gli strumenti e una corretta informazione. Così ho voluto prendere questo testimone per portarlo avanti, perché l’unica soddisfazione che ho in ricordo di mia figlia è che almeno il suo non sia stato un gesto inutile, caduto nel vuoto, come ha voluto cadere lei.
L’importante ora è che la legge passi il più in fretta possibile, in modo che sia già attiva con l’inizio del prossimo anno scolastico. Invece di perdere tempo, basterebbe che i deputati le dedicassero due ore anche per il bene dei loro figli. Se perdiamo un altro anno, chissà quante vittime ci saranno nel frattempo.
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In collaborazione con Lorena Cacace
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