Chi ha subito lesioni oculari e ha perso la vista può contare su una nuova metodologia messa a punto usando le cellule staminali. La tecnologia, tutta italiana, ci viene spiegata da Graziella Pellegrini, una delle inventrici nonché Director Cell Therapy Program, Center for Regenerative Medicine ‘Stefano Ferrari’ & Professor of Cell Biology, Università di Modena e Reggio Emilia.
Il progetto è “partito tanto tempo fa – ricorda l’esperta – Abbiamo realizzato le ricerche che ci hanno portato a capire che potevamo ricostruire la cornea e abbiamo avviato dei trapianti. Trapianti con diversi clinical-trial su pazienti che sono andati avanti per 10 anni. Dopo 10 anni avevamo una percentuale di successo molto elevata, si parlava di oltre il 70% di successi clinici con recupero della visione visiva nei pazienti”.
“A quel punto – continua – è entrata in vigore la nuova normativa europea per cui abbiamo dovuto dotarci di uno spin-off, di una piccola società per poter continuare a realizzare la terapia con i più alti standard europei richiesti. Lo abbiamo fatto, è stata certificata la nuova struttura dove veniva applicato questo prodotto di Terapia avanzata ed abbiamo ottenuto l’autorizzazione europea, grazie alla quale in questo momento è ricominciata l’erogazione del servizio, a disposizione di tutta Europa e non più soltanto dell’Italia”.
Come funziona questa nuova tecnica? Si va a “prelevare una briciolina risparmiata dalla lesione da uno dei due occhi del paziente, si tratta una biopsia di 1 mm, piccola come un moscerino, dalla quale estraiamo le cellule staminali per ricostruire in laboratorio la cornea danneggiata”, ci spiega l’esperta che ha illustrato i risultati del suo lavoro al Palazzo dell’Informazione a Roma, in occasione del Simposio ‘Restoration of Vision’, organizzato dalla Fondazione Ri.Med in collaborazione con l’Istituto la Vision di Parigi e la School of Medicine dell’Università di Pittsburgh.
E il vantaggio è che “Il tessuto, provenendo dallo stesso paziente, non produce nessun tipo di rigetto. Togliamo la cicatrice che si è formata sull’occhio e riapplichiamo il suo tessuto ricostruito in laboratorio. Con questa tecnologia abbiamo un’integrazione perfetta – sottolinea – perché le cellule ‘riconoscono se stesse’ nell’organismo del paziente. Questo porta a un recupero della funzione visiva, in alcuni casi direttamente, nel giro di breve tempo. Nei casi più gravi, con lesioni profonde, c’è bisogno di ricorrere a un intervento in due step. Il recupero della funzione visiva, e la stabilità della superficie dell’occhio, è oggi documentato fino a 15 anni dopo il trapianto”.
“Questo ci dice che è possibile un recupero totale e che è una terapia risolutiva, definitiva – puntualizza Pellegrini – Non parliamo di un farmaco tradizionale, che deve essere periodicamente riapplicato. Si fa una volta, nel caso di qualche minima complicazione due volte (in rarissimi casi), senza nessun rischio. Dopodiché il paziente è di nuovo come prima, perfettamente vedente e stabile”. Si tratta di soggetti ciechi in seguito a incidenti causati da acidi, basi o fuoco, “come ad esempio uno schizzo di calce per un muratore, l’acido della batteria per il meccanico, un abuso di lenti a contatto che ha portato a un danno post-infettivo o un’ustione termica”.
Ma il processo di certificazione della terapia è particolarmente difficile. Racconta ancora Pellegrini: “Ad oggi in tutta Europa ne sono state approvate soltanto 8. Noi siamo riusciti a ottenerlo nell’intervallo di tempo tra 2010 – quando abbiamo avuto l’autorizzazione Gmp, cioè di ‘Good manufacturing practice’ – e il 2015. Credo che sia stato il processo più rapido al mondo di ottenimento di una certificazione, che normalmente richiede tra gli 8 e i 12 anni”.
“Credo che la medicina rigenerativa sia veramente la medicina del futuro, perché è l’esempio di medicina personalizzata – sostiene Pellegrini – La facciamo con le nostre cellule, con il nostro genoma, e non ci sono eventi avversi. Tuttavia, l’elemento di critica che viene mosso è nella direzione dei costi di questo tipo di terapie. Su questo aspetto bisogna lavorare e riflettere accuratamente per due motivi: in primis il modo in cui viene calcolato il costo è spesso erroneo, spesso si considera il costo della terapia e non si considera quello del paziente trattato, anche con terapie inadeguate che lo lasciano invalido nel tempo e che devono essere ripetute; in secondo luogo questo tipo di terapie deve essere ottimizzato per avere un costo inferiore”.
La conclusione a cui si giunge è che: “Ottimizzare significa strutture e sistemi di regolamentazione più flessibili, figure professionali essenziali e non una molteplicità di richieste molto spesso basate sull’esperienza farmaceutica precedente che è ridondante nel nostro caso e non perfettamente applicabile. Per cui si può portare a farle costare molto di meno, ad essere più sostenibili e ridurre i costi sanitari invece di aumentarli“.
In collaborazione con AdnKronos