Sono ormai mesi che si continua a descrivere la crisi del Centrodestra, la quale viene puntualmente respinta ai mittenti dai leader dei tre partiti principali tramite grandi manifestazioni d’affetto e sinergia; nonostante ciò l’approssimarsi del voto sta rendendo quel tappeto dove sono stati nascosti tutti i tormenti della coalizione troppo sudicio per non essere scoperchiato nella sua evidenza.
Le frizioni sono varie e incrociate, inoltre il poco tempo che separa dal voto rende la già farraginosa organizzazione dell’alleanza ancora più machiavellica e astiosa: il nodo principale al centro del dibattito è il futuro candidato premier comune.
Il Centrodestra, fin dalla sua fondazione a metà anni ’90 grazie al potere aggregante del neo-partito liberale creato da Silvio Berlusconi, ha avuto come regola per la premiership un principio molto semplice e chiaro: la formazione politica che ottiene un voto in più delle altre è autorizzata ad esprimere il candidato unico a Presidente del Consiglio. L’impostazione non ha mai generato problemi perché fino al 2018 la coalizione era saldamente guidata da Forza Italia dello stesso Berlusconi, gruppo che essendo di ispirazione moderata riusciva a mediare tra le varie anime interne alla coalizione.
Poi con le scorse elezioni politiche nazionali e la vittoria della Lega di Salvini, quest’ultimo ha sostituito il Cavaliere alla leadership, dalla quale tuttavia sembra sarà a breve scalzato dalla fragorosa crescita elettorale di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Dunque la prossima guida del gruppo dovrebbe essere la deputata romana: eppure la faccenda non è così lineare come sembra e lascia emergere le frizioni tra i tre gruppi principali che compongono l’intesa politico-elettorale.
Se Meloni, inevitabilmente e coerentemente, spinge per mantenere le regole fino ad ora invalse e rispettate dalle varie anime nel corso degli anni, Lega e soprattutto Forza Italia lasciano intendere di voler tentare una rifondazione del patto. Tempismo sospetto per la leader di Fratelli d’Italia, che afferma di voler continuare l’esperienza coalizzata solo nel mutuo rispetto degli accordi, altrimenti non esclude anche una corsa in solitaria (FdI è attualmente il primo partito nei sondaggi).
Salvini e Berlusconi si trovano difatti in una scomoda posizione: da un lato vorrebbero agganciarsi alla spinta elettorale di Meloni per generare quel governo di centrodestra ormai invocato da 5 anni (nel 2018 la loro fu la coalizione relativamente più votata); dall’altra temono di sparire sotto il peso dei voti della stessa leader di destra romana, rendendoli dei semplici orpelli per fiancheggiare e sostenere la lista principale Fratelli d’Italia.
Tuttavia se Salvini si mostra aperto sia ad un riconfigurazione sia ad un mantenimento dell’attuale statuto della coalizione, ciò in quanto il partito oscilla tra la consapevolezza della debacle post-Conte I e l’auspicio che l’uscita dall’esecutivo Draghi e la campagna elettorale risollevino le sorti della formazione, Forza Italia ha voluto suggellare la sua definitiva virata su posizioni più radicali e reazionarie proprio con la sfiducia all’esecutivo, cosa che ne sta provocando la fuoriuscita di molti storici esponenti liberal-moderati.
Difatti i vertici di FI Berlusconi e Tajani parlano di una definizione del premier per Palazzo Chigi successiva alle elezioni, quando il quadro elettorale sarà chiaro, in sostanza procrastinando la precisazione della linea condivisa per condurre la campagna elettorale liberi da vincoli di fedeltà ad un candidato preconfezionato.
Insomma, anche se in agosto, le pulizie primaverili in casa centrodestra stanno smuovendo quel tappeto al di sotto del quale erano state sepolte ambiguità e diffidenze intercorse in questi quasi cinque anni di legislatura: periodo in cui la coalizione è sempre stata divisa per identità manifestata, per proposte annunciate e per collocazione governativa. Chissà se in mezzo a tanta polvere i tre leader riusciranno ad incontrarsi o vagheranno da soli in cerca di una finestra per poter cambiare aria.
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