Quando si descrive lo scenario politico italiano e internazionale spesso si ricorre alla parola establishment. Un esempio riguarda la vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali USA: il giorno dopo il voto, superato il primo choc, tutti i commentatori di ogni parte del globo hanno definito la sua elezione come il successo dell’outsider contro l’establishment. Di contro, la Hillary Clinton avrebbe perso anche perché simbolo di quello stesso establishment. Cosa si nasconde dietro questo termine inglese che continua a essere usato in ogni articolo politico, compresi i nostri? Cosa significa davvero?
Establishment: traduzione in italiano
Establishment non è altro che la traduzione inglese di istituzione, ma il significato che ha assunto in politica è più ampio e indica l’insieme delle istituzioni che regolano la vita di un paese, da quella politica a quella sociale. Un sinonimo che rende bene il senso attuale è “classe dirigente“, le élite, coloro cioè che siedono nei posti chiave del potere economico, politico, mediatico e culturale e che di fatto regolano la vita di una società.
Chi fa parte dell’establishment?
Partiti, dirigenti politici, uomini e donne delle istituzioni, direttori di giornali e tv, personalità del mondo dello spettacolo che fanno tendenza: tutti costoro fanno parte dell’establishment o, come spesso si intende con tono polemico, della cosiddetta “classe dominante“.
L’establishment è cattivo?
Con la crisi della politica tradizionale dei partiti, il termine ha preso sempre più connotazioni negative ed è più vicino al significato di “casta” che di istituzione, rappresentando un potere intoccabile, lontano dagli interessi delle persone comuni.
Hillary Clinton e l’establishment
Tornando al nostro esempio iniziale, la Clinton è stata definita la candidata dell’establishment per via di una vita passata in politica (è stata ex First Lady per due mandati, ex senatrice dello stato di New York ed ex Segretario di Stato nella prima presidente Obama) e dei rapporti con il mondo della finanza. È stata fin dall’inizio la candidata del partito, il volto di una politica istituzionale (e quindi per molti vecchia) che l’ha sostenuta anche alle Primarie perché moderata soprattutto nei confronti di Bernie Sanders.
Donald Trump contro l’esestablishment?
Trump invece non ha mai avuto alcuna esperienza politica, proprio come il primo Silvio Berlusconi. Anche se ha avuto molti contatti con il mondo della finanza ed è un esponente di certa classe dirigente (è pur sempre un costruttore miliardario che è risorto dai fallimenti anche grazie all’appoggio di Wall Street), è un outsider, cioè un estraneo alla classe politica che ha dominato il paese. A differenza della sua avversaria, non ha mai avuto l’appoggio del partito che anzi l’ha osteggiato non per i contenuti ma per la forma, politicamente scorretta anche per i repubblicani più moderati.
Infine, un accenno ai media. Nei giorni post elezioni, tutti i grandi giornali americani hanno fatto il mea culpa per non aver capito cosa stesse succedendo nel paese. I media sono una parte consistente dell’establishment perché dettano i temi in agenda, chi raccontano il mondo e qualcosa di noi stessi. Nell’era degli smartphone, l’errore dei giornalisti e degli analisti è stato rinchiudersi davanti a una scrivania senza mai affacciarsi alla finestra. Anche i social network sono solo una parte del paese, specie se si tratta di una nazione grande e complessa quanto gli Stati Uniti. Come la politica ha smesso di parlare a una parte della società, anche i media dell’establishment hanno smesso di raccontarla: sarebbe ora di rompere questi schemi.