Yara Gambirasio è stata strappata alla vita a soli 13 anni. Amava la ginnastica ritmica, ascoltava Laura Pausini ed era una tifosa del Milan. Questi sono i ricordi che rimangono dopo 12 anni dalla sua tragica morte.
Eppure, nonostante tre gradi di giudizio e il dramma di questa vicenda, c’è ancora chi sostiene l’innocenza del suo assassino, Massimo Bossetti. Forse per i suoi occhi azzurri e per le foto in posa con moglie e figli. O forse perché difficilmente nell’immaginario collettivo un padre di famiglia può macchiarsi di un così terribile crimine. Per questo, oggi, è mia intenzione descrivere chi è davvero l’ex muratore di Mapello.
“Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara”
Una personalità controversa quella di Bossetti che ricostruiamo oggi perché raccontata all’interno della docufiction “Sulle tracce dell’assassino. Il caso Yara”, in onda questa sera nella sua seconda puntata in esclusiva sul canale 9 alle 21:25 e disponibile in anteprima su Warner Bros Discovery+, con la produzione Verve media Company. La regia ed i testi, invece, sono di Marina Loi e Flavia Triggiani, già note per le docufiction su Lady Gucci, La Banda della Uno Bianca e molte altre. Un delitto, però, quello Gambirasio che le ha colpite nel profondo.
Chi è davvero Massimo Bossetti?
Massimo Bossetti è sempre rimasto distaccato, immobile, imperturbabile. Ha ucciso spinto da uno dei moventi più antichi del mondo, quello sessuale.
Ha infierito sul corpo di Yara con un’arma da punta e da taglio e lo ha fatto recidendo gli slip ed i leggings in prossimità del gluteo. Le ha slacciato il reggiseno e glielo ha lasciato sollevato sopra i seni.
Il suo Dna non poteva non diventare la firma dell’assassino. E non è difficile comprendere il perché. La traccia era mista, comprendendo il profilo genetico di Yara unitamente a quello di Bossetti stesso, ed era stata rilasciata al momento dell’aggressione. Giustappunto per la sua particolare collocazione.
Bossetti aveva scelto la sua preda per le caratteristiche fisiche: rossa di capelli, ginnasta e in età prepuberale. L’aveva uccisa perché si era fermamente rifiutata di dare seguito ad una fantasia chissà da lui per quanto covata.
Ormai era a Chignolo d’Isola, l’aveva rapita e non poteva più tornare indietro. Era a volto scoperto, frequentava un centro estetico di Brembate due volte a settimana e, dunque, sarebbe stato facilmente riconoscibile da chi, come Yara, lo aveva visto bene in volto. Un dato che conferma ancora una volta il comune denominatore di tutti gli omicidi: per un assassino uccidere rappresenta l’unico modo per risolvere un problema. E non è importante se quest’ultimo a noi sembri serio, fondato o futile. Ciò che conta è solo il suo punto di vista.
Massimo Bossetti, che ci crediate oppure no, incarna le sembianze terrene del predatore sessuale. E lo fa non soltanto in relazione all’omicidio che ha commesso, peraltro uno dei più atroci degli ultimi vent’anni, ma anche allo stile di vita adottato nel quotidiano. Non certamente quello di un uomo tutto famiglia e cantiere.
Aveva deciso di uccidere solo per non perdere lo status. Per non abbandonare quella regolarità impostata come il suo sguardo e la sua posa nelle fotografie. Lo aveva fatto per conservare l’ultimo baluardo della sua misera esistenza e la poca autostima rimastagli. Difatti, Yara lo aveva visto bene in volto e, qualora si fosse fermato, avrebbe perso qualsiasi occasione di restare impunito.
È verosimile – e su questo punto sposo in pieno quanto sostenuto dalla procura prima, e dalla Cassazione in via definitiva poi – che si sia effettivamente trattato di un omicidio d’impeto. Non premeditato e forse neppure cercato, ma non per questo meno feroce e crudele. Yara è morta di freddo, di stenti, sola ed in preda alla paura. Aveva solo tredici anni.
Ma perché il caso Gambirasio è stato capace di colpirci così tanto nel profondo? A questa domanda hanno risposto le due registe e autrici della docufiction targata Warner Bros Discovery e prodotta da Verve Media Company. Incarnando con le loro parole l’essenza di uno degli omicidi più aberranti degli ultimi vent’anni.
Dice Marina Loi: “Il caso della morte di Yara sembra uscire dalla penna di un romanziere, con una enorme quantità di colpi di scena e uno sforzo investigativo pressoché unico in Italia. Purtroppo, è una storia vera, una tragedia che ha investito una famiglia, quella della ragazza, ma anche in fondo quella di Bossetti. L’enorme interesse mediatico per la vicenda, infatti, ha fatto sì che venisse sviscerata e messa in prima pagina la famiglia di Bossetti, dalla madre “adultera” ad altri particolari in alcuni casi troppo morbosi. Quando si racconta la cronaca nera il rischio di scivolare nella morbosità c’è sempre. Per questo noi ci approcciamo a questi casi sempre con molto rispetto. In primis per la famiglia della vittima e della vittima stessa”.
La collega Flavia Triggiani, invece, commenta così: “Questo documentario è composto da molte voci di esperti, giornalisti, uomini di legge ed altri personaggi coinvolti a vario titolo, che ci hanno raccontato tanti aspetti di questo caso, come anche voci di esperti internazionali e non solo. E abbiamo cercato di far emergere anche la voce di Yara e chi era davvero questa meravigliosa ginnasta. Abbiamo cercato di raccontarla nella sua bellezza, nella sua semplicità, nella sua purezza”.