19 luglio 1992: ‘Attentato di stampo terroristico-mafioso a Palermo, sono rimasti uccisi il magistrato italiano Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta’.
Quella data è impressa a fuoco sulle pagine della storia d’Italia e sulla pelle di tutti gli italiani che in quel giorno rimasero senza parole dinanzi alla violenza mafiosa.
Purtroppo però il numero delle vittime della strage di Via d’Amelio non si fermò a 6 morti: a distanza di una settimana si spezzò infatti un’altra vita. Rita Atria, testimone di Giustizia che collaborò direttamente con Borsellino, si tolse la vita a Roma dove viveva in segreto, lanciandosi dal settimo piano di un palazzo di viale Amelia. Era il 26 luglio del 1992. Rita era una ragazza fragilissima e allo stesso tempo fortissima, che aveva visto in Borsellino una figura paterna e un confidente. La notizia della strage sconvolse la ragazza, che decise di consegnarsi alla morte.
Via Amalia e via D’Amelio: due vie dal nome simile segnate da destini tragici.
Chi era Rita Atria? Per molti è stata un’eroina, una giovane donna che ha avuto il coraggio e la tenacia di rinunciare a tutto, persino agli affetti più cari, per inseguire un’ideale di giustizia. Ha lottato con tutte le sue forze per ribellarsi a un ordine quasi prestabilito nella sua Palermo, in cui le donne erano obbligate a tacere dinanzi alle male azioni della mafia. Rita non volle sottostare al regime del silenzio e dell’omertà e così scelse di diventare testimone di Giustizia. Non è stata una pentita di mafia, poiché non aveva mai compiuto alcuna azione illecita, tuttavia era cresciuta nella casa del nemico, suo padre infatti era ufficialmente un pastore, ma nell’ombra della quotidianità siciliana era un boss della mafia.
‘Rita, non t’immischiare, non fare fesserie’, le diceva continuamente sua madre, ma Rita non aveva orecchie per ascoltarla. Lei aveva incontrato Paolo Borsellino, un professionista dal cuore d’oro, che la ascoltava con attenzione e un pizzico di dolcezza, quella dolcezza che lei non ricevette mai da nessuno, nemmeno dalla famiglia. A lui raccontò tutto, fece nomi, indicò persone. Senza freni, tanto che un giorno qualcuno disse: ‘Fimmina lingua longa e amica degli sbirri’.
Rita era figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo. Era cresciuta a Partanna, un piccolo comune del Belice, zona divenuta ‘celebre’ in seguito al tragico terremoto del 1968: era una zona disastrata anche dal punto di vista sociale, si diceva circolasse denaro proveniente dal narcotraffico.
Gli occhi di Rita non conobbero la bellezza che dovrebbe spettare a ogni bambino, lei vide soltanto l’orrore, il dolore e la tristezza, che soggiacevano a quel maledetto traffico. E poi l’ignavia delle donne, che rimanevano immobili dinanzi alle azioni scellerate dei loro mariti, pur essendone assolutamente coscienti. ‘Perché una donna sa sempre cosa sta combinando suo marito o suo figlio’, diceva sempre Piera Aiello, moglie di Nicola Atria, fratello di Rita. Lei condivideva a pieno questa idea e sin dall’età dell’adolescenza si mostrò diversa dalle altre, pronta a schierarsi contro il ‘sistema’ imperante nella sua terra.
Questo significò inevitabilmente schierarsi contro suo padre, un pastore all’apparenza, che in realtà era un uomo ‘rispettato’, sempre pronto a risolvere qualsiasi problema, fino a quando però il 18 novembre dell’85, don Vito Atria, venne ucciso. Dinanzi al corpo crivellato di colpi, Rita, appena dodicenne, ebbe ben chiaro quale fosse il suo futuro. Ma nonostante gli obiettivi ben definiti in testa, nel suo cuore si fece spazio un vuoto immenso.
Da quel momento Rita ricercò il sostegno di una figura maschile nel fratello, un piccolo boss che col tempo acquisì maggiori poteri. Fu proprio lui a raccontarle gli oscuri intrecci del paese, le gerarchie, i responsabili dell’omicidio del padre, tutti segreti inconfessabili che Rita però, non tenne a lungo per sé.
Non passò troppo tempo che anche suo fratello venne ucciso e sua moglie Piera Aiello, che aveva sempre contestato le attività illecite del marito, decise di collaborare con la Giustizia. A quel punto Rita, che nel frattempo si era fidanzata con Calogero, venne lasciata brutalmente, perché nipote di una pentita di mafia. Anche sua madre non trattenne l’ira e decise di ripudiarla definitivamente.
All’età di 17 anni, completamente abbandonata a se stessa, Rita decise di parlare: volle denunciare quel male oscuro che è la mafia, per rivendicare gli omicidi di suo padre e suo fratello. Incontrò così il giudice Paolo Borsellino, un uomo che le rimase accanto nel suo percorso di confessioni e che lei vide, ancora una volta, come una figura paterna.
Da quel momento Rita iniziò a vivere segretamente a Roma, senza vedere nessuno per mesi, fatta eccezione per il giudice buono. Quel legame forte purtroppo svanì poco dopo, nella maledetta estate del ’92, quando Borsellino venne ucciso con la sua scorta nell’attentato di Via d’Amelio. Lei, che in quell’uomo aveva ritrovato uno stralcio di famiglia e un senso per la sua vita, non resse il colpo e solo una settimana dopo si tolse la vita, gettandosi da un palazzo.
Rita non ebbe pace né giustizia nemmeno da morta: al suo funerale non andò nessuno del paese e sua madre, che l’aveva ripudiata ormai da diverso tempo, alcuni mesi dopo la sepoltura, distrusse con un martello la sua tomba. Non lasciò intatta nemmeno la fotografia. Alcuni sostengono che l’abbia fatto per evitare eventuali vendette mafiose sul resto della famiglia, ma nessuno capì mai a fondo il significato di quell’ignobile gesto.
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