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Cibo italiano all’estero, un business fallito per il Bel Paese

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Per una economia come quella italiana, le esportazioni dei prodotti tipici detengono un peso specifico piuttosto importante nella bilancia del prodotto interno lordo. Il discorso vale a maggior ragione per i Paesi che, come il nostro, possono vantare eccellenze assolute invidiate e richieste in tutto il mondo. E’ il caso del cibo italiano, venerato e omaggiato eppure mai sfruttato in pieno dalle aziende nostrane. In un periodo di crisi economica, poi, le esportazioni di alimentari di origine controllata e protetta si trasformano spesso da occasione unica in fallimento di business.

Il mercato del falso, lo sappiamo tutti, rappresenta un business da svariati miliardi di euro ogni anno, ma sbaglia chi pensa che questo si riduca soltanto ai prodotti di moda, dagli accessori all’abbigliamento. Tra una borsa di marca e un paio di occhiali brandizzati trovano posto anche le forme di Parmigiano e le bottiglie di olio d’oliva. Anzi, dopo aver letto gli ultimi dati rilasciati da Coldiretti, possiamo affermare senza dubbio che il cibo italiano falso muove un giro d’affari in costante crescita, che solo nell’ultimo anno ha mosso qualcosa come 50 miliardi di euro.

FINTO CIBO ITALIANO ALL’ESTERO
In pratica, e questo è il dato di partenza importante per un’analisi seria del fenomeno, due prodotti alimentari italiani su tre in commercio oltre confine risultano falsi, anche se vengono immessi sul mercato con denominazioni, loghi e ricette che richiamano in qualche modo l’Italia. Ci troviamo nel paradosso del Made in Italy che non ha nulla a che fare con il nostro Paese, tutto questo nonostante a parole sia i vari governi che gli enti di vigilanza si dicano attivamente impegnati nella tutela del marchio “Italia”. Non è solo una questione di soldi (anche se da soli i mancati introiti valgono una manovra finanziaria), ma anche di reputazione.

Il cibo italiano da sempre viene indicato come il non plus ultra della qualità delle materie prime e della preparazione, sempre fedele alla tradizione pur non disdegnando qualche innovazione. Sulle tavole degli appassionati stranieri, però, non sempre arriva il vero prodotto italiano. Lo stesso premier Mario Monti, di recente, è intervenuto sulla questione affermando con grande arguzia che gli alimenti che si trovano all’estero sono spesso “Italian sounding” ma non “Italian tasting”, come a dire che le etichette e le pubblicità rimandano (spesso con effetti di ridicolo involontario) a una presunta italianità che poi, aperta la confezione, non si ritrova assolutamente.

QUESTIONE DI ETICHETTE
Dov’è il problema? Il problema è che questi prodotti falsi dominano ormai il mercato, con il risultato che all’estero hanno sempre più successo i cibi finto italiani prodotti altrove (nel Paese stesso in cui viene commercializzato o, come sempre più spesso accade, in Cina), rispetto a quelli di qualità prodotti nella penisola e destinati all’esportazione. Esistono per fortuna delle eccezioni felici, come la pasta Garofalo (che anzi fin dall’inizio ha puntato con forza sui mercati esteri), la Barilla, la Ferrarelle, ma sono casi isolati, esempi di successo in un mare di imitazioni. Basta addentrarsi in un qualsiasi reparto dei supermarket americani per rendersi conto dell’entità del fenomeno.

Detto che è comprensibile da un punto di vista commerciale il tentativo di imitare i prodotti italiani, bisogna cercare di capire anche i motivi dietro la debacle del Made in Italy all’estero. Innanzitutto c’è un problema di tipo normativo, che chiama in causa l’Unione Europea, cui le aziende italiane devono fare riferimento. E’ proprio Coldiretti a mettere in luce la situazione paradossale di “un inganno favorito dalla mancanza di trasparenza in etichetta per la quale anche nell’Unione Europea non si prevede l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza della materia prima utilizzata negli alimenti”. Insomma, si fa presto a dire Italia, ma da dove provengono poi le materie prime utilizzate nella produzione degli alimenti in questione?

Nella totalità dei casi di falso cibo italiano si tratta di materie prime locali, e spesso di scarsa qualità, sostituite in etichetta da immagini esotiche del Belpaese, anche qui con effetti spesso paradossali. Il fatto evidente è che spesso i produttori di falso italiano non sanno neanche di cosa stanno parlando: da qui i famigerati tortellini reperibili in Svezia, che però sulla confezione riportano la foto di un piatto di tagliatelle alla bolognese, da qui il mito della Caesar Salad o, peggio ancora, della salsa Alfredo, intruglio che ricopre tanti piatti negli Stati Uniti nel nome di una tradizione che in realtà non esiste.

UN PROBLEMA DI IMMAGINE
A onor di cronaca bisogna anche ammettere che esistono brand all’estero che portano alto il nome del cibo italiano, pur non essendo molto conosciuti dalle nostre parti. Si tratta per lo più di aziende fondate da emigrati italiani che, per sfruttare un business milionario, hanno puntato tutto sul mangiare sano tipico della nostra cucina, producendo prodotti che utilizzano materie prime italiane ma che si rivolgono ai mercati specifici (un esempio lampante è Carluccio’s in Inghilterra). Come mai questi vendono di più dei cibi italiani da esportazione? In parte per una questione di prezzo, in parte perché si accordano meglio al gusto del popolo di riferimento, da un punto di vista estetico e del marketing.

A questo proposito, sul Corriere della Sera di recente è apparso un intervento di Claudia Neri, che analizza perfettamente la differenza tra i prodotti italiani-non-italiani e quelli nati davvero dalle nostre parti e poi (spesso invano) commercializzati all’estero. Una differenza di tipo estetico, che riguarda molto il packaging e le strategie di comunicazione: in breve, se dal punto di vista del gusto la tradizione e il passato rendono bene, tutto ciò è vanificato quando la tradizione si trasforma in scarsa capacità di innovazione dal punto di vista delle strategie di marketing. E’ storia nota: noi saremo anche più bravi, ma gli altri vendono meglio.

I corridoi di un Sainsbury qualunque – scrive Claudia Neri sul Corriere della Sera – restituiscono un mondo capovolto: immangiabile pesto inglese impacchettato in graziosi barattoli con etichette che sembrano scritte a mano dai contadini della lunigiana. L’immagine stessa della genuinità della campagna italiana e della sua sapienza contadina… L’omologo pesto italiano invece, il più delle volte ha un’immagine che si potrebbe definire da economie emergenti. Quei paesi in cui le parole ‘grande industria’ evocano ancora progresso, piuttosto che inquinamento e omologazione“.

Improponibili spaghetti anglosassoni predisposti alla (s)cottura – continua Claudia Neri – hanno spesso un packaging molto più convincente nella sua italianità di quelli che italiani lo sono sul serio“. Insomma le aziende falso-italiane puntano molto di più sull’italianità di quanto non facciano quelle che italiane lo sono veramente!

FALSO CIBO ITALIANO IN ITALIA
Prima di chiudere, c’è ancora un ultimo aspetto da considerare in questa disamina impietosa del Made in Italy alimentare, ovvero i prodotti alimentari stranieri che arrivano e spopolano anche da noi, soppiantando spesso la produzione locale. Non ci riferiamo ai cibi etnici che, a folate, attraversano la penisola con i loro sapori tanto di moda (sushi, cinese, thai etc.), ma piuttosto ai falsi cibi italiani che si ritrovano persino sugli scaffali dei nostri supermercati. Situazione surreale eppure decisamente comune.

Non saremo a cifre bulgare del 2 su 3 come avviene all’estero, ma anche da noi sono sempre più frequenti i sequestri di derrate alimentari spacciate per italiane e in realtà provenienti chi sa da dove. Non solo cibo fresco (frutta, verdura o frutti di mare) ma anche cibi confezionati, che dietro uno slogan o l’etichetta italiana nascondono origini ignote. In Italia esiste una normativa sull’etichetta che deve indicare l’origine, ma a quanto pare, come tante altre cose, è piuttosto facile aggirarla e raggirarci. E’ proprio il caso di dire “Viva il Made in Italy, un business fallito”.

Mario Bello

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