In Cile le femministe che fanno parte dell’Esecutivo hanno la sfida di trasformare le strutture coloniali e patriarcali.
Che un governo si dichiari femminista può suonare molto bene in questi tempi. Tuttavia, almeno in America Latina, una dichiarazione di questo tipo non è esente da problemi. Rita Segato, figura intellettuale del femminismo latinoamericano — e ospite personale del presidente Boric alla sua cerimonia di inaugurazione — ha insistito sul carattere patriarcale e coloniale dei nostri Stati nazione, e non ha cessato di mettere in guardia sui pericoli e sui limiti che ciò comporta tentazione istituzionale.
Stiamo parlando di quella fiducia eccessiva nello Stato e negli effetti trasformativi dell’avere femministe in alte posizioni di potere o dell’attuazione di politiche di genere avanzate. Le recenti esperienze di governi progressisti nel continente gli danno ragione. Lo Stato non basta per cambiare la società.
Ma, come riconosce la stessa Rita, agire dall’interno è un compito imprescindibile per le forze che intendono mettere in campo un progetto storico che renda possibile, prendendo anche le sue parole, un maggiore benessere per più persone, e in Cile, una parte considerevole di quelle le forze sono oggi, e per la prima volta, alla guida dello Stato.
Tra le femministe cilene entrate nel governo dopo anni di lotte di piazza e di partecipazione alle organizzazioni sociali, non c’è spazio per l’ingenuità. Lo fanno con la consapevolezza della comprovata capacità che le istituzioni hanno di neutralizzare, domare e disciplinare i movimenti dirompenti. Tuttavia, la responsabilità storica che ricade su questa nuova generazione di leader politiche donne, rende necessario fare un passo avanti e rischiare.
Il problema sta piuttosto nel determinare il senso strategico che le femministe hanno per raggiungere l’istituzionalità, e come dispiegarvi una politica volta a smantellare le strutture coloniali e patriarcali dello Stato neoliberista cileno, un apparato costruito per la produzione di accumulazione privata, espropriazione di grandi maggioranze sociali, distruzione della natura e oppressione delle popolazioni indigene.
Ciò che il Cile richiede è un altro Stato e, sebbene la sfida sia scoraggiante e superi di gran lunga ciò che un governo può fare in quattro anni, l’importante è muoversi, seppur lentamente, in quella direzione. La presenza delle femministe al governo ha proprio questo significato.
In questi pochi mesi il presidente Boric ha dato segnali forti di prendere sul serio il marchio femminista che ha voluto apporre al suo mandato: ha formato un gabinetto ministeriale che per la prima volta è composto da più donne che uomini, ha nominato il primo ministro dell’Interno e della Pubblica Sicurezza nella storia del Paese, e, anche in modo senza precedenti, ha integrato nel suo comitato politico il capo del Ministero delle donne e dell’equità di genere.
Le donne e le femministe figurano oggi nei massimi livelli di decisione politica. Allo stesso modo, in materia legislativa, abbiamo visto un governo preoccupato di migliorare la vita concreta delle donne che lavorano e di porre fine alle ingiustizie e alle umiliazioni che sono ancora naturalizzate a livello sociale. In questo senso, pochi giorni fa è stata approvata una legge che renderà efficaci le indennità di mantenimento dei figli, e che andranno a diretto beneficio delle migliaia di donne che subiscono quotidianamente questa forma generalizzata di violenza economica.
Antonia Orellana, ministro del ramo, e uno dei potenti leader di questo governo, è stata una figura chiave nella rapida elaborazione di questa legge e nella sua approvazione unanime al Congresso. Allo stesso modo, questa settimana l’esecutivo ha riattivato la discussione sul disegno di legge che riduce la giornata lavorativa da 45 a 40 ore settimanali, rispondendo così a un desiderio molto sentito dai lavoratori del Paese e, recuperando una bandiera storica del movimento operaio: sottrarre lavoro e tempo al capitale.
In questa occasione l’occhio femminista del governo si è concentrato sulla presentazione di una serie di indicazioni volte a promuovere la corresponsabilità sociale e di genere in materia di cura per evitare che la riduzione dell’orario di lavoro retribuito si trasformi, come probabilmente accadrebbe se Verranno intraprese azioni specifiche per evitarlo, in più tempo libero per gli uomini e più tempo per la cura e il lavoro domestico non retribuito per le donne.
Queste politiche sono esempi virtuosi di ciò che il femminismo può fare dalle istituzioni e, sebbene, come ha avvertito il femminismo stesso, siano ancora limitate, consentiranno di generare condizioni di vita più favorevoli per le donne e la società nel suo insieme. E non è poco. In Cile, non c’è dubbio che le donne e il femminismo siano stati la principale forza di socialdemocratizzazione e di contenimento dell’avanzata dell’estrema destra. Senza andare oltre, la rivolta popolare dell’ottobre 2019 non può essere spiegata senza le massicce mobilitazioni femministe che l’hanno preceduta.
Le conquiste in termini di parità, diritti sessuali e riproduttivi, uguaglianza sostanziale e autonomia, che si sono riflesse nella proposta di una nuova Costituzione e che, se approvata, porrà il Cile in prima linea in queste questioni a livello mondiale, sono state possibili solo grazie l’esistenza di un femminismo organizzato che ha deciso di cedere la controversia all’interno della Convenzione, e di migliaia di donne mobilitate per promuovere queste avances e disposte a confrontarsi con coloro che hanno cercato di bloccarle.
La stessa vittoria di Gabriel Boric al secondo turno è stata prodotta grazie al massiccio e energico sostegno delle donne e, il risultato del plebiscito del 4 settembre, dipende in gran parte dal sostegno che danno alla nuova proposta costituzionale. Un governo femminista è una scommessa rischiosa e stimolante. In Cile è un progetto che è appena agli inizi e per il cui successo non ci sono garanzie. Per lo stesso motivo è opportuno ricordare il consiglio di Aníbal Quijano sapientemente ripreso dai femminismi latinoamericani: nello Stato bisogna imparare a “vivere dentro e contro”.
Dentro, per spingere politiche che riescano a migliorare le condizioni di vita delle maggioranze lavorative, e contro, per combattere l’inerzia patriarcale e coloniale che questa struttura comporta. Un modo di vivere scomodo, ma forse l’unico che permetterà alle forze della sinistra cilena di trasformare in realtà l’utopia di un governo femminista senza perdersi nei labirinti del potere.
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