In collaborazione con Lorena Cacace
Sulle nostre pagine ci siamo spesso occupati dei collaboratori di giustizia e dei problemi legati alla loro protezione. Il ruolo dei cosiddetti pentiti è fondamentale nella lotta alla criminalità organizzata: lasciarli soli può voler dire esporre loro e le famiglie alla vendetta, può rovinare anni di indagini, mandando in fumo inchieste su fatti gravissimi. Per questo, quando abbiamo ricevuto la lettera-denuncia di Vincenzo Paratore, collaboratore di giustizia dal 1993 in processi legati alla mafia messinese, abbiamo deciso di dargli spazio (LEGGI COME FUNZIONA IL PROGRAMMA DI PROTEZIONE). La sua vicenda ha risvolti surreali ed è sintomo di quanto la protezione dello Stato nei confronti dei collaboratori di giustizia sia spesso a rischio.
Nella lettera, Paratore, detto anche “Enzu a scheggia”, fa riferimento a una sua richiesta inoltrata al Servizio Centrale di Protezione e per conoscenza a tutte le alte cariche dello Stato, a partire dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
In sintesi, chiede nuove generalità visto che quelle date dallo Stato a lui e alla sua famiglia, figli e nipoti compresi, sono state rivelate e la copertura è saltata. Le sue vicende giudiziarie precedenti alla collaborazione sono state portate alla luce a causa di un incendio che ha colpito un negozio di famiglia.
Nel 2012 la magistratura lo indaga per incendio doloso, arrestandolo in attesa del processo: alla fine viene assolto per non aver commesso il fatto. Nel frattempo sulla stampa locale e fuori e dentro le Aule del Tribunale, filtra la sua vera identità, così come il suo passato.
“Tutti ora sono a conoscenza che il signor Tizio e Caio è un ex mafioso, condannato per rapina traffico di droga e armi, diversi omicidi e naturalmente di associazione a delinquere 416 bis”, scrive. Questo perché, pur con le nuove generalità risulta “sempre un pregiudicato al Casellario Giudiziario: lo Stato Italiano, conoscendomi come Paratore, indaga sulla sciagura e decide che sono colpevole”.
Anche le figlie, che hanno conosciuto solo il cognome di protezione, vengono a conoscenza di tutto. Per di più, la notizia nell’iscrizione del registro negli indagati, fa saltare anche il risarcimento dell’assicurazione: il figlio svende l’attività e la famiglia si trova in enorme difficoltà.
Anche i famigliari “hanno deciso che vogliono il loro vecchio cognome perché, anche se è di un ex collaboratore di giustizia, almeno è il loro cognome originale. Altrimenti desiderano cambiare nuovamente cognome” e questa volta, sottolinea, “non vuole essere un pregiudicato per l’eternità”.
Ora deve cambiare di nuovo le generalità, ma è necessario che i nuovi documenti siano “da incensurato perché ho pagato già quello che dovevo pagare”, prosegue nella lettera.
Anche sul fronte lavoro, dall’incendio nulla si è mosso e l’essere ancora disoccupato sta aggravando la situazione famigliare. A questo punto, scrive, meglio tornare a Messina dove è inutile cambiare identità, visto che tutti lo conoscono.
“Ho perso la fiducia nelle Istituzioni perché sono stati commessi fin troppi errori contro di me e nessuno vuole prendersi la responsabilità”, ammette Paratore. La vicenda delle generalità, racconta, è solo l’ultima di una serie di mancanze che lo hanno messo a rischio negli anni.
Nel 2004 era stato arrestato dopo che il Servizio Centrale di Protezione aveva spostato vicino casa sua il collaboratore Gaetano Costa, fratello di Nino Costa che Paratore fece uccidere durante la guerra di mafia a Messina. La relazione di servizio, spiega nella lettera, parlava di frequentazioni assidue tra i due, cosa che fece scattare il fermo: in realtà fu Paratore ad avvisare i referenti che erano “acerrimi nemici”.
C’è stato l’arresto per gioco d’azzardo e furto per cui ha scontato tre mesi di carcere nella Casa Circondariale di Prato “senza aver commesso alcuna infrazione”, dal momento che le accuse sono cadute.
Già con il cambio di generalità, a livello burocratico sono saltate alcune informazioni, dall’invalidità per diabete al titolo di studio.
Infine, l’ennesima “svista”, che lo ha costretto a “litigare con i Carabinieri” perché nella sua stessa località protetta era arrivato il figlio di un maresciallo dei Carabinieri, accusato da Paratore al processo “Messina” di essere legato a un clan della città siciliana.
Ora, senza più copertura e senza un lavoro, dopo che le richieste sono rimaste inascoltate, ha deciso di scrivere e di rivolgersi alle autorità alla luce del sole.
“Se devo morire di fame, preferisco morire con la pancia piena, perché è certo che a Messina qualche parente di una delle vittime di cui si sono stato responsabile o che ho fatto condannare, mi ucciderà”, conclude la lettera.
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