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I collaboratori di giustizia in Italia sono stati e rimangono un’arma importante per la lotta contro la criminalità organizzata. I cosiddetti “pentiti” sono stati fondamentali in momenti delicati della storia italiana, iniziando dagli anni del terrorismo, quando furono importanti per smantellare le reti delal criminalità eversiva; lo sono stati ancora di più nel contrasto alle mafie fin dall’epoca del Maxi Processo a Cosa Nostra e negli anni successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio. Fu proprio Giovanni Falcone a capire l’importanza che avrebbero avuto nella lotta alla criminalità organizzata. Il loro status giuridico, come l’uso nei processi e nelle indagini, i benefici e la protezione è regolamentato da leggi ad hoc, ma i problemi come i dubbi non si sono attenuati.
L’ordinamento giuridico attuale prevede due figure che spesso vengono confuse ma che in realtà sono molto diverse: il collaboratore di giustizia e il testimone di giustizia. I primi sono coloro che, appartenenti alla criminalità organizzata, decido di “fare il salto” e collaborare (appunto) con la giustizia, dando informazioni utili a sgominare le cosche. I secondi sono persone al di fuori della criminalità e che anzi ne sono vittime e che per questo decidono di rivolgersi alla giustizia, testimoniando contro i criminali.
Le loro storie non sono molto conosciute. Sono imprenditori, commercianti, lavoratori che si sono opposti alle regole su cui si fonda il potere mafioso, denunciando e rischiando sulla propria pelle. Lo Stato ha, in entrambi i casi, l’obbligo di pensare alla loro sicurezza ed è qui che nascono molti problemi.
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Chi sono i collaboratori di giustizia
I collaboratori di giustizia sono ex membri della criminalità che decidono di collaborare con lo Stato, sottoscrivendo una sorta di “contratto” con cui si impegnano a dare informazioni sulle attività criminali e sulle cosche “in cambio di benefici processuali, penali e penitenziari e del sostegno economico per sé e per i propri famigliari”, come si legge nella documentazione della Commissione bicamerale dell’Antimafia.
Il loro ruolo è stato centrale per le più importanti vittorie della lotta alla criminalità. I primi infatti a capire l’importanza dei collaboratori, definiti dalla stampa anche come “pentiti”, furono Giovanni Falcone e tutto il pool antimafia, creato a Palermo da Antonino Caponnetto. Il Maxi Processo, il più grande procedimento penale mai portato a termine, fu il primo grande colpo assestato a Cosa Nostra, concluso con 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di carcere.
Per la prima volta si processò la mafia come istituzione: si misero a nudo i meccanismi interni, si scoprirono i legami e i funzionamenti della Cupola. Non più singoli mafiosi, ma membri di organizzazioni criminali che avevano le proprie regole. Il grande risultato fu ottenuto grazie all’uso dei pentiti e in particolare di Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno.
Nel corso degli anni i collaboratori di giustizia si sono dimostrati fondamentali nella lotta alla criminalità. Le loro rivelazioni hanno permesso di conoscere le mafie al loro interno, capire i meccanismi con cui operavano e si arricchivano, i legami con il territorio e spesso con la politica. Si sono evitate altre stragi e i colpevoli di quelle che hanno insanguinato la storia recente d’Italia. Eppure il loro ruolo così delicato non ha mancato di scatenare polemiche, anche per un atteggiamento da parte dello Stato che non è sempre stato lineare.
La protezione dello Stato spesso è stata latitante, come se non si avesse la vera consapevolezza dei rischi che corrono i pentiti. Un caso su tutti è stato l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo: rapito all’età di 12 anni nel 1993 per mettere a tacere il padre, venne ucciso l’11 gennaio 1996, a 14 anni, dopo essere stato torturato: il suo corpo venne sciolto nell’acido. Per la sua morte sono stati condannati del piccolo, Giovanni Brusca, organizzatore del rapimento e aguzzino del ragazzino, oltre ai boss Leoluca Bagarella e Gaspare Spatuzza.
La normativa sui collaboratori di giustizia
La legge attuale che regola la figura del collaboratore di giustizia è la legge 13 febbraio 2001, n. 45 che ha modificato la prima che ha dato valore giuridico ai pentiti, la legge 15 marzo 1991, n. 82. A volerla e ottenerla fu il pool antimafia di Palermo e soprattutto Giovanni Falcone, il primo a capire l’importanza dei collaboratori nei processi alla mafia siciliana e il primo a comprendere fino in fondo il ruolo che doveva avere lo Stato. Lo disse lui stesso in un’intervista rilasciata nel 1990 a Michele Santoro nel corso di una puntata storica di Samarcanda.
“Dobbiamo trovare rimedi giuridici per consentire a queste persone di poter parlare nelle condizioni in cui non debbano sopportare rischi eccessivi per la propria incolumità personale. In America c’è un programma di protezione dei testimoni efficacissimo e di questo noi parliamo. Il pentito o il teste non può essere spremuto e poi buttato via. Sono problemi di credibilità dello Stato”.
Le parole del magistrato rivelano il passaggio cruciale che si chiede a un pentito: rompere il silenzio e l’omertà su cui si basa la forza della criminalità, perdendo ogni tipo di protezione. Rotto il ‘voto del silenzio’, un pentito per le cosche diventa un uomo morto e non è il solo: rischiano i suoi cari, la famiglia, gli amici più vicini.
La legge 82 del 1991 istituisce il programma di protezione per i collaboratori e i testimoni di giustizia: lo Stato si fa carico della loro sicurezza in cambio del loro apporto. La Commissione Centrale, presieduta da un sottosegretario e composta da magistrati e investigatori di comprovata esperienza, valuta l’ammissione nel programma, come la modifica e la revoca. Altro organo è il Servizio centrale di protezione che “si occupa dell’assistenza e della promozione di misure per il reinserimento nel contesto sociale e lavorativo dei collaboratori di giustizia e degli altri soggetti ammessi al programma”, come si legge nei documenti della Commissione bicamerale.
È il Servizio centrale che mantiene i rapporto con le autorità giudiziarie e tramite 14 Nuclei Operativi, con competenze regionali i interregionali, organizzata le misure di sicurezza. Oltre alla sicurezza, lo Stato assicura anche il sostegno economico con un emolumento: esiste anche un’alternativa detta “capitalizzazione” per cui il pentito chiede di uscire dal programma di protezione ricevendo una somma di denaro una tantum da poter investire e non dipendere più dallo Stato.
La legge viene modificata nel 2001: si introduce la netta distinzione tra collaboratori e testimoni e un diverso trattamento giuridico; vengono strette le maglie della selezione dei pentiti; viene introdotto il limite di 180 giorni, periodo entro cui il collaboratore deve rivelare tutto ciò di cui è conoscenza; le informazioni vengono vagliate dagli inquirenti, provate con indagini e solo allora si accede al programma di protezione; le dichiarazioni devono avere valore di novità; il limite della pena da scontare è di un quarto della pena inflitta, dieci anni in caso di condanna all’ergastolo.
I cambiamenti della legge hanno ricevuto molte critiche da parte degli investigatori e degli inquirenti: il limite dei 180 giorni viene visto come troppo esiguo, anche perché spesso molti pentiti hanno una lunga storia criminale alle spalle, devono ricordare tutto e bene anche per fatti lontani nel tempo. Anche la nozione di “novità” delle dichiarazioni viene indicata come un freno: spesso gli investigatori e gli inquirenti cercano conferme di quanto saputo o trovato ed eliminare dichiarazioni perché non nuove è un grande ostacolo.
L’elenco e i dati dei collaboratori di giustizia
Gli ultimi dati sui collaboratori di giustizia e testimoni sottoposti a programma di protezione, pubblicati nella relazione del Servizio Centrale al Parlamento e relativo al secondo semestre del 2012 indicano in 1140 i titolari di programma di protezione, ripartiti in 1059 collaboratori e 81 testimoni. A loro si aggiungono 4.189 familiari, di cui 3934 congiunti di collaboratori e 255 di testimoni: il totale è di 5.329 persone.
Il maggior numero di pentiti arriva dalla camorra (456), a cui seguono i pentiti di mafia (279), la ‘ndrangheta (126), la Sacra Corona Unita (102) e 96 riconducibili ad altre organizzazioni criminali. Per i testimoni di giustizia il numero maggiore è legato alle ‘ndrine calabresi (25), 22 della camorra, 13 la mafia, 4 la criminalità pugliese e 17 di altre organizzazioni.