Michelangelo Mazza è un assassino, un camorrista con ben in mente un progetto criminale, successivamente diventato collaboratore di giustizia, a cui lo stato ha quindi permesso di scontare la sua pena, benché non fosse da poco, fuori dal carcere e ha garantito, a lui e alla sua famiglia, protezione e sopravvivenza. «Queste – spiega lui stesso – sono verità storiche e giuridiche che in nessun modo potrò mai cambiare, non a caso mi sono imposto, ogni giorno, un momento di riflessione sul mio passato. Oggi sono il primo a dire che i camorristi malignamente truffano tanti giovani, perfino i loro figli, dando loro falsi miti in cui credere e falsi nemici da combattere. Da quando l’ho capito, ho deciso di collaborare con la giustizia e, ancora oggi, porta avanti non solo la mia collaborazione con la Magistratura, ma anche l’impegno preso con me stesso e con la società civile di seguire un’altra via: quella della legalità».
In effetti, da quando è diventato collaboratore di giustizia non sono emersi suoi sgarri e le sue dichiarazioni sono sempre state verificate. Non ha pertanto problemi con il Servizio Centrale di Protezione, non è soggetto a revoche del programma o a provvedimenti disciplinari, eppure mi ha contattato per lanciare un appello. «Io sono grato allo Stato per come mi hanno protetto e assistito. Il problema è che io non posso basare la mia vita e quella della mia famiglia sull’assistenza, perché prima o poi il programma di protezione giustamente finirà e a quel punto che fine farò, se in questi anni non ho la possibilità di inserirmi in un contesto sociale e lavorativo?», si domanda Mazza. «La mia preoccupazione – continua – non riguarda l’oggi, quando potrei tranquillamente godermi il contributo dello Stato senza preoccuparmi di lavorare, ma io sono un padre di famiglia e le mie bambine sono piccole, pertanto ho il dovere, soprattutto nei loro confronti, di preoccuparmi che anche un domani potrò garantire loro tutto quello che gli serve».
Dello stesso avviso è Don Marcello Cozzi, esponente di spicco di “Libera – Associazioni, nome e numeri contro le mafie” e autore del libro “Ho incontrato Caino” (Melampo editore). «In questo momento – spiega Don Marcello – non vedo un serio investimento politico nella gestione dei collaboratori di giustizia. Essi hanno, infatti, dato e danno tuttora un grande aiuto alle inchieste contro la criminalità organizzata, pertanto anche allo smantellamento di intere organizzazioni criminali, tuttavia non vedo per loro la costruzione di sbocchi sociali». «Ho, quindi, paura – continua il sacerdote – che fra un po’ di tempo ci ritroveremo fra la mani una specie di bomba a orologeria pronta a esplodere, perché quando un collaboratore di giustizia ha scontato la sua pena in carcere e sono esauriti gli estremi di pericolosità per cui stare nel programma di protezione ha magari 40 o 50 anni, cosa fa? Dove va? Sono venti anni che seguo i collaboratori di giustizia e le posso assicurare che per molti questo problema si è già presentato». «Ovviamente – ci tiene però a chiarire – sto parlando solo dei collaboratori onesti, ovvero quelli che sinceramente si sono messi in discussione e hanno fatto un serio cammino di revisione del loro passato».
«Se si vuole davvero parlare di un reinserimento sociale di queste persone, penso che sia importante che durante il programma di protezione ci si occupi di un loro inserimento lavorativo, piuttosto che mettergli in mano i soldi con cui vivere come succede oggi. In questo modo, sarebbero già avviati a un lavoro e durante il programma non starebbero tutto il giorno a girarsi i pollici. Capisco che sia difficile e che ci siano mille sfaccettature da verificare, non ultima l’attendibilità di molti di loro. Tuttavia bisogna iniziare, magari da chi si è contraddistinto per serietà e affidabilità, per poi non ritrovarsi a dover affrontare un ulteriore problema».
Ed è proprio questo quello che chiede Michelangelo Mazza: «Noi collaboratori, durante il programma di protezione, riceviamo un assegno familiare con cui vivere, oltre a una casa pagata dello Stato, senza però dover far nulla, se non partecipare ai processi e testimoniare in Tribunale, quando questo ci è richiesto. Il programma definitivo attualmente dura 5 anni ed è rinnovabile, quindi lo Stato spende una marea di soldi per mantenerci. Non sarebbe, forse, più logico rendere il programma di protezione senza scadenza, in modo che il collaboratore di giustizia possa essere sempre tutelato e contestualmente controllato dalla Forze di Polizia visto che per alcuni di noi, soprattutto quelli che hanno contribuito allo smantellamento dei più sanguinari clan, il pericolo non finirà mai. Contestualmente, però, dovrebbe essere ridotto il tempo in cui il collaboratore vive a carico dello Stato a massimo 2 anni, durante i quali riceve l’assegno di mantenimento ma è tenuto a frequentare corsi per imparare una professione. Dopo di che egli sarà inserito, tramite cooperative o altre associazioni simili, in un contesto lavorativo e così sarà tenuto a lavorare…invece che tenerci a casa a non fare nulla, ricevendo pure i soldi in cambio. Ovviamente dovrà pagarsi l’affitto di casa con il proprio stipendio, permettendo quindi allo Stato di risparmiare anche quella spesa».
«So bene – aggiunge il collaboratore di giustizia – che il momento è drammatico dal punto di vista del lavoro, ma il punto è che noi siamo comunque retribuiti…però per non fare nulla! Ugualmente a oggi lo Stato spende soldi per mantenerci e, pertanto, non cambierebbe nulla dal punto di vista prettamente economico: solo che il compenso sarebbe relativo a una prestazione lavorativa. Credo che questo darebbe maggiore equità anche a tutte quelle persone per bene che non trovano lavoro, ma non prendo uno stipendio come me».
L’obiezione che subito viene in mente è, però, legata alle migliaia di persone per bene che oggi si ritrovano senza lavoro. Sarebbe giusto che costoro venissero scavalcate da chi comunque si è macchiato di atroci reati? «Purtroppo – risponde Don Marcello – quest’obiezione la sentiamo già quando si parla dei migranti: “prima noi e poi loro”. Tuttavia nel caso dei collaboratori di giustizia, esiste una domanda etica a cui questa società, che si dice civile, deve rispondere: che cosa ne vogliamo fare delle persone che sbagliano? Se non rispondiamo a questa domanda resta un vuoto importante da colmare e a quel punto chi ci dà la sicurezza che il collaboratore non torni a frequentare i circuiti criminali, anche solo per poter sfamare la propria famiglia? Oggi, infatti, la gente comune è disposta a tutto, pur di avere i soldi per arrivare a fine mese, immaginiamoci chi proviene già da un mondo criminale…».
«Io spero – conclude Don Marcello Cozzi di Libera – che con questa nuova legislatura si possa avviare un progetto di revisione della legge sui collaboratori di giustizia e non solo per quanto riguarda il loro inserimento lavorativo, ma anche il loro nome di copertura. Perché non è immaginabile un vero e proprio cambio di identità, che resti anche dopo la fine del programma di protezione (attualmente i CdG hanno solo dei documenti di copertura, con generalità fittizie, da poter esibire ma che non hanno corrispondenza anagrafica, NdR)? Se noi davvero li invitiamo a rifarsi una vita, come possiamo immaginare che si rifacciano una vita se quando finisce il programma non sanno dove andare a stare, non sanno che lavoro fare, riacquistano il loro cognome originale che può essere facilmente rintracciato su internet. Insomma dobbiamo fare qualcosa che, pur rispettando il dolore dei familiari delle vittime di mafie, possa rispondere alla richiesta di chi davvero pentito di quello che ha fatto intende reinserirsi nella società».