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Sport

Come i lavoratori sono morti per costruire gli stadi per i Mondiali in Qatar

I Mondiali di calcio in Qatar, i primi a giocarsi in autunno e i primi in Paese arabo, si avvicinano sempre di più, manca una settimana esatta, infatti, al fischio d’inizio della prima gara tra i padroni di casa e l’Ecuador. Con loro si intensificano anche le voci di quello che è successo nel corso dei dodici anni dall’assegnazione da parte della Fifa allo Stato mediorientale, soprattutto quello che è successo ai lavoratori che hanno contribuito alla realizzazione delle infrastrutture nel deserto, compresi gli stadi.

Alcuni lavoratori nepalesi in Qatar – Nanopress.it

Non è una novità che molti migranti, provenienti principalmente da India, Bangladesh, Sri Lanka e Nepal, siano morti per costruire gli impianti che ospiteranno la fase finale del torneo internazionale. Un giornalista indiano ha cercato di ricostruire le storie di alcuni di loro, che sono simili a quelle delle migliaia di lavoratori che hanno perso la vita.

Come sono morti i migranti che hanno contribuito a realizzare le infrastrutture dei Mondiali in Qatar

Non è una questione di ipocrisia parlare solo ora di quello che è successo per la realizzazione dei Mondiali in Qatar, che inizieranno la settimana prossima con la partita inaugurale tra il Paese ospitante e l’Ecuador. Non è una questione di ipocrisia mettere l’accento solo ora (di nuovo) sui diritti umani negati, sulle migliaia di lavoratori migranti che hanno perso la vita per costruire stadi e infrastrutture che ospiteranno il primo campionato mondiale in un Paese mediorientale, vicino vicino a Natale.

Per lo meno, non lo è per il mondo del giornalismo. Dal Guardian, è da anni che si cerca di fare luce su quello che effettivamente è successo, e di voci fuori dal coro, quindi non entusiaste, ce ne sono state parecchie: la Norvegia, per esempio, sicuramente Amnesty International.

Joseph Blatter – Nanopress.it

Certo, i mea culpa di Joseph Blatter, presidente della Fifa all’epoca dell’assegnazione (nel 2010), risultano comunque tardivi, quasi fuori tempo massimo, ma ricostruire le vicende delle persone che sono morte, anche ora, è sicuramente utile per dare una coscienza a chi li seguirà, ma soprattutto a chi ancora guarda a quei Paesi, ricchi di denaro, per organizzare altre manifestazioni, calcistiche, sportive o no che siano.

Ed è quello che ha fatto Mihir Vasavda, un giornalista indiano che lavora all’Indian Express, ovvero un quotidiano dell’India, ma in lingua inglese. Attraverso la ricostruzione delle storie di nove operai morti in Qatar, fatte rintracciando le famiglie, ha cercato di spiegare come si sia arrivati a questo, anche a non saperli contare.

Innanzitutto si deve partire dal motivo per cui la maggior parte dei lavoratori che hanno contribuito alla realizzazione di infrastrutture e stadi nel deserto non venissero dal Paese che di fatto ospiterà i Mondiali. Ecco, da un lato c’è un Qatar abitato da poco meno di tre milioni di persone, dall’altro c’era la necessità di sfruttare la manodopera a basso costo – come tra l’altro già accaduto in Russia per i Mondiali del 2018 -, e quindi fatta arrivare in massa tanto dall’India, appunto, quanto dal Nepal, Sri Lanka e Bangladesh.

Le testimonianze raccolte da Vasavda hanno raccontato non solo le morti in sé, ma anche gli inganni, gli sfruttamenti, chiaro, e la totale noncuranza delle vite umane messe in atto in questi dodici anni che sono passati dall’assegnazione all’effettivo (non ancora) start della competizione.

I Mondiali in Qatar – Nanopress.it

Rajendra Prabhu Mandaloji, carpentiere di quarant’anni, raggiunse il Qatar nel 2016 attratto dalla promessa di un salario mensile di 2700 riyal, circa 700 euro, che sarebbe servito a saldare i debiti che la sua famiglia aveva in India. Che qualcosa non andava, così come raccontato dalla moglie al giornalista, la vittima se n’era accorta non appena arrivò a Doha: non c’era nessuno ad aspettarlo, meglio, non c’era nessuno che lo conducesse ai posti in cui avrebbe dovuto vivere e lavorare. Poi il contratto, altro che quello che gli era stata promesso, la paga arrivava a malapena a mille riyal.

E quindi il suicidio, che la donna contattata da Vasavda ha raccontato di aver scoperto solo per una chiamata di un collega del marito. “Dopo la sua morte i datori di lavoro ci chiesero di pagare 500mila rupie (più di 6mila euro) per trasportare il corpo India. Alla fine dovette intervenire l’ambasciata“.

La storia di Jagan Surukanti e Akhilesh Kumar, idraulici rispettivamente di 32 e 22 anni, è simile, ma diversa da quella di Mandaloji. Mentre stavano posando un tubo di drenaggio in una delle zone vicine allo stadio di Lusail calandosi in profondità, la terra è crollata sotto i loro piedi. Entrambi rimasero sepolti e morirono, come riportato nei referti, per “asfissia traumatica“. Le famiglie lo vennero a sapere solo indirettamente da alcuni conoscenti e ricevettero le salme dopo oltre un mese da quel tragico 3 ottobre 2021. Hanno deciso di intentare una causa contro le società appaltatrici e vorrebbero risarcimenti, chissà se arriveranno mai.

Adbul Majid, invece, è morto un anno primo, nel 2020, per cause che non ancora non sono state comunicate. Autista di mezzi pesanti di 56 anni, quella del Qatar non era la sua prima esperienza fuori dall’India – aveva già lavorato in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti. Nel Paese che ospiterà i Mondiali viveva dal 2014, godendo di ottima salute, proprio per questo la sua famiglia ancora non si riesce a spiegare com’è che abbia perso la vita. Al momento, dicevamo, non ha ricevuto spiegazioni, solo 125mila rupie, circa 1500 euro, ovvero lo stipendio di due mesi (arretrati).

Anche Hardaljit Singh, che di anni ne aveva 25, faceva l’autista. La sua morte, avvenuta nel giugno del 2015, una spiegazione ce l’ha: un incidente stradale a Doha. Alla famiglia venne comunicato con una settimana di ritardo e solo dopo un mese riuscirono ad avere indietro il suo corpo, e solo grazie a un conoscente che si occupò di raccogliere i soldi necessari a sbrigare le pratiche e garantire i trasporti. La moglie ha raccontato al giornalista che i datori di lavoro non se ne curarono e non comunicarono nulla.

Un po’ più fortunata (nella sfortuna) è stata la famiglia di Rada Chinna Ramoji, un addetto alle pulizie morto di quarant’anni, morto per arresto cardiaco. In India, infatti, sono riusciti ad avere un qualche tipo di risarcimento perché l’uomo, prima di partire nel 2014 per il Qatar, stipulò una polizza assicurativa. Passò sette anni lavorando dodici ore al giorno per un massimo di 1500 rupie, circa 180 euro. Il 25 gennaio del 2021 stava aspettando l’autobus per tornare al suo alloggio quando ebbe l’infarto che ne provocò la morte.

Cosa hanno fatto dal governo del Qatar per evitare le morti sul lavoro

Come dicevamo, le storie raccolte da Vasavda sono nove di un numero sterminato di racconti che sono simili, sovrapponibili, tragici e totalmente sbagliati, a cui, dal Qatar, hanno posto rimedio soltanto nel 2020, quando, in pratica, i grandi lavori per la realizzazione delle strutture erano quasi conclusi.

Con una riforma del lavoro, il governo degli emiri ha cercato di migliorare le condizioni di vita dei circa due milioni di lavoratori migranti del Paese mediorientale. Da allora agli operai è consentito lasciare o cambiare il posto di lavoro senza il permesso della propria azienda, come accadeva in precedenza secondo il sistema locale della kafala. È stato inoltre riconosciuto loro un salario minimo mensile di 1000 riyal (circa 230 euro) e ad altre piccole forme di indennità aggiuntive. Decisamente, però, troppo poco perché si possa tacere su quello che è successo in questi dodici anni di buio, e per il divertimento dei tanti che guarderanno i Mondiali, ora consapevolmente.

Mariacristina Ponti

Nata nel lontano 1992, nel giorno più bello per nascere, a Cagliari. Dopo la maturità scientifica, volo a Padova e poi a Roma per studiare lettere. Nella Capitale poi rimango anche per il master in giornalismo. Tra stage a profusione, sempre nelle redazioni sportive, anche se il vero amore è sempre stato la politica, ho ancora da ritirare un tesserino da professionista.

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