I bambini non hanno schermi innati di pregiudizio, e le relazioni che instaurano, al netto di influenze esterne (genitori compresi), hanno tendenzialmente carattere di purezza e autenticità. Ecco perché spiegare loro la multiculturalità e l’inclusione è più facile di quanto si pensi ed è possibile attraverso il vissuto quotidiano a casa, all’asilo e a scuola. Il 21 maggio è la Giornata mondiale per la diversità culturale, per il dialogo e lo sviluppo, data fissata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2002 per porre l’accento sul tema multiculturalità come ricchezza, come spinta propulsiva verso una società in cui si neutralizzi ogni anacronistico rigurgito di razzismo e intolleranza. Un’occasione importante per richiamare l’attenzione sugli aspetti fondanti di una società che guardi a un domani senza tensioni e attriti interculturali, partendo proprio dalla dovuta attenzione al delicato universo dell’infanzia e dell’educazione.
La scuola e la famiglia sono poli nevralgici che contribuiscono sincronicamente a innervare il tessuto relazionale dei più piccoli, per tessere le trame di una vita sociale serena e senza criticità insuperabili con l’altro da sé. È tra i banchi, insieme ai compagni di classe, e a casa, con i genitori e i propri fratelli, ma anche davanti alla tv e durante l’esperienza del gioco che si irrobustiscono i percorsi di un’infanzia in cui accoglienza e uguaglianza sono binari intrinseci portanti, leitmotiv che possono tradursi, positivamente e propositivamente, in un cammino solido verso il futuro affinché l’idea di inclusione diventi strutturale nell’esistenza.
La multiculturalità, convivenza di più culture in un solo spettro empirico, è il punto di partenza per volgere verso la più nobile dimensione dell’interculturalità in cui regna uno scambio attivo di conoscenze tra differenti realtà. È il principio da cui partire per formare una identità costruttiva del bambino tramite il confronto con l’alterità, tramite una fitta rete di incontri per promuovere l’integrazione tra le diversità anziché l’asettico accostamento di diversità. Per spiegarla ai bambini occorre anzitutto ragionare in un’ottica di insieme, sganciandosi dalla trappola di una concezione di società multiculturale a compartimenti stagni in cui vi è sì convivenza, ma anche dis-integrazione e frammentazione delle diversità in tanti piccoli gruppi che difficilmente troverebbero un punto di contatto. È dire addio alla ghettizzazione dell’altro, gettando le basi per una concreta evoluzione sociale verso un orizzonte di inclusione e partecipazione diffusa.
Come spiegare la multiculturalità ai bambini? La via più semplice e diretta è la quotidianità, che spesso mette gli adulti davanti alla straordinaria capacità dei bimbi nel percepire le differenze ma senza attribuirvi un disvalore. Terreno fertile su cui far crescere il seme dell’integrazione e dell’inclusione, da curare con una sana educazione al rispetto e alla tutela del benessere e delle peculiarità altrui. Ecco perché la famiglia non può delegare in toto agli insegnanti il compito di spiegare al bambino l’utilità di un approccio multiculturale all’esistenza, ma deve accompagnare il minore nelle sue esperienze di confronto/conoscenza con altre culture rafforzando un paradigma già presente nel suo fisiologico slancio sociale: l’inclusione attraverso il gioco e l’apprendimento. È un passaggio essenziale, che permette di evitare condotte che cristallizzino il pregiudizio in una formula di irreversibile impermeabilità all’esperienza della vita con l’altro. Non esiste una strada univoca da percorrere per spiegare ai propri bimbi la multiculturalità, quanto piuttosto diverse vie di comunicazione degli aspetti salienti di questa preziosissima declinazione psicosociale.
Suona ripetitivo ma è quanto mai attuale, al mondo d’oggi, sottolineare come la multiculturalità a scuola contribuisca in modo dominante alla costruzione di una società inclusiva e propositiva. Alla base, però, deve esserci necessariamente una formazione familiare che consenta al bambino di vivere e sperimentare le relazioni con gli altri senza ansia e soprattutto senza pregiudizi. Assorbire approcci e dinamiche di diffidenza a casa, infatti, inevitabilmente si traduce in riflessi di profonda difficoltà nell’immersione in relazioni esterne che siano basate sulla curiosità e sul rispetto delle diversità.
Come spiega lo psicologo Rupert Brown nel suo libro Psicologia sociale del pregiudizio, quest’ultimo non si materializza in un giudizio errato o frettoloso ma in un giudizio espresso a prescindere dalla concreta e diretta esperienza. È un approccio che distorce inevitabilmente la realtà, andando a intaccare la conoscenza dell’altro nella sua effettiva essenza e compromettendo, talvolta irrimediabilmente, le relazioni sociali. Non c’è fondamento razionale nel pregiudizio, ma solamente una deformazione degli eventi e delle identità che si traduce in valutazioni scorrette e in una pericolosa resistenza alle smentite che arrivano dall’esperienza. Un bimbo che intercetta e fa propri i pregiudizi, e non viene sostenuto da genitori e insegnanti nel cambiare prospettiva, con buona probabilità diventerà un adulto le cui convinzioni immotivate sugli altri si aggrapperanno alla negazione che le sue idee siano sbagliate. Così, un singolo individuo o un gruppo in cui si insinui questo humus tenderanno più facilmente a ritenere valide solamente le sfumature che confermano i preconcetti su cui hanno intavolato l’analisi dell’altro, scartando ogni evidenza che contrasti con la loro immagine della realtà.
Il pregiudizio, dunque, è una sorta di “droga” che talvolta si assume già durante l’infanzia e che, a seconda del tessuto familiare ed educativo in cui si forma e in cui può irrobustirsi, rappresenta una potenziale mina pronta a far saltare in aria ogni sano rapporto interpersonale che sia scevro di insensate posizioni sull’etnia, il colore della pelle, la religione, l’orientamento sessuale. Ecco perché stimolare i bimbi all’esperienza di confronto e conoscenza sul campo è fondamentale per azzerare o ridurre l’incidenza dei pregiudizi nel bacino delle relazioni, attuali e future.
Un pregiudizio radicato, non sottoposto a revisione critica e a correzione già in età infantile e perciò potenzialmente permanente, si trasforma in stereotipo: da valutazione che precede l’esperienza e la distorce, dunque, diventa un modello fisso attraverso cui la realtà viene osservata, filtrata e concepita al di là di ogni ragionevole dubbio e di ogni evidenza. Lo stereotipo assegna al “tutto” le chiavi di lettura della “parte” e viceversa: ragionando per stereotipi culturali, ad esempio, a un gruppo di persone si attribuiscono caratteristiche proprie di uno degli individui che lo compongono. Stesso discorso vale quando al singolo si assegnano caratteristiche ritenute proprie del gruppo cui appartiene o della maggior parte degli individui che lo compongono. Processare la realtà per stereotipi significa instaurarvi un rapporto privo di contatto diretto e mediare la conoscenza dell’altro con proiezioni ed elaborazioni mentali talvolta disancorate dalla verità. Significa iniettare nelle relazioni interpersonali una soggettiva interpretazione degli altri, che diventa pericolosa quanto refrattaria alla rimodulazione perché lontana da una interazione concreta. La realtà di oggi, però, dimostra come le classi multiculturali – sempre più diffuse anche in Italia – siano una preziosa risorsa per rafforzare il concetto di integrazione.
Abbiamo intitolato questo paragrafo inserendo la parola “ritorno” perché, se tempestiva e mirata, l’azione educativa contro pregiudizi e stereotipi li rende condizione reversibile e quindi innocua per lo sviluppo psicosociale del bambino. Essi non sono innati ma fioriscono, si nutrono e crescono nelle trame delle influenze familiari, storiche, ambientali e didattiche in cui non si sono attivate le dinamiche di formazione e correzione utili ad arginare lo spettro del giudizio che precede l’esperienza.
Per questo, spiegare ai bambini l’importanza della multiculturalità attraverso l’esperienza, partendo dalle mura domestiche fino a quelle scolastiche, consente di limare e neutralizzare le insidie di false immagini della realtà che rischiano di sedimentarsi e costituire una lente distorta con cui guardare il mondo. Non si tratta soltanto di parlare ai propri bimbi. Attenzione, infatti, anche alle forme di comunicazione non verbale che si innestano nella galassia degli adulti e in famiglia: i più piccoli, infatti, traggono spunto non solo dalle condotte esplicite dei più grandi ma anche da una serie di messaggi impliciti che fanno da veicolo per l’analisi dell’altro da sé.
Uno dei metodi migliori è l’apprendimento condiviso, in cui i bambini siano coinvolti in attività didattiche e ludiche che aprano a uno spazio inclusivo e non discriminante che punta al ruolo determinante del singolo all’interno del gruppo. Fare leva sui tratti che li accomunano è sicuramente una delle strategie di punta verso l’inclusione, e la dimensione del gioco e della creatività è fondamentale per avvicinarli a un contesto di contatto sempre più profondo e costruttivo con altre culture.
L’estremismo è una delle facce più dure con cui fare i conti in un mondo in cui dominano disattenzione per le diversità e la non accettazione dell’altro. Nell’ambito della prevenzione di derive violente e dell’educazione alla cittadinanza globale, l’Unesco ha sottolineato a chiare lettere la necessità di strategie di intervento educativo nelle aule scolastiche, ma che non possono prescindere dal ruolo chiave dei genitori: “Certamente il compito educativo non può essere delegato in modo esclusivo alla scuola: la famiglia, la comunità, le istituzioni e i media giocano infatti un ruolo di primaria importanza. Ciononostante, insegnanti ed educatori necessitano di un’adeguata formazione affinché si pongano come esempi positivi e acquisiscano le competenze teoriche e metodologiche per accompagnare studenti e studentesse nell’affrontare l’alto tasso di complessità dei fenomeni contemporanei. (…) La violenza nelle scuole, in ogni sua forma, costituisce sempre una violazione del diritto dei bambini e degli adolescenti all’educazione e al benessere. Pertanto la violenza e il bullismo a scuola devono essere contrastati allo scopo di raggiungere gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, in particolare il n.4, che mira ad assicurare un’educazione inclusiva e di qualità per tutti e a promuovere l’apprendimento permanente, e il n. 16, che intende promuovere società pacifiche e inclusive“.
Il 21 maggio è la Giornata mondiale della diversità culturale per il dialogo e lo sviluppo. Il messaggio di fondo, che fa da architettura all’idea di dedicare una data ai temi dell’interculturalità e dell’integrazione, è stato sintetizzato da Irina Bokova, direttrice generale Unesco dal 2009 al 2017: “La diversità culturale è linfa vitale di società dinamiche. Propone idee e prospettive inedite che arricchiscono la nostra vita in innumerevoli modi, permettendo a noi tutti di crescere e progredire insieme. Un’aula scolastica in cui siano presenti culture diverse non solo è più inclusiva, ma accresce l’apprendimento e il rendimento degli studenti. Un luogo di lavoro multiculturale non è solo più innovativo, ma anche più produttivo e economicamente redditizio”. Il tema è di assoluta attualità in un contesto internazionale come questo, in cui estremismi, violenze e discriminazione sono il pane quotidiano che tante minoranze culturali sono costrette a ingoiare incassandone il sapore più aspro e devastante. E i bambini sono il presente da cui ripartire per plasmare positivamente il domani.
La corretta gestione del Sistema Tessera Sanitaria rappresenta un aspetto fondamentale per tutti gli operatori…
Il volto di una madre che ha perso una figlia racconta spesso più di mille…
Un silenzio solenne avvolgeva le strade, rotto solo dal suono cadenzato dei passi e dal…
Ci sono momenti in cui sembra impossibile mantenere la concentrazione. La mente vaga, le distrazioni…
La stagione fredda porta con sé molte domande sulla routine quotidiana, ma c’è un gesto…
Se c'è un momento in cui tutto sembra sospeso, è quando un atleta raggiunge un…