Come sta andando la sperimentazione per il vaccino contro il cancro al seno

Il tumore della mammella è la neoplasia più frequente in Italia e per le donne il danno è ancora maggiore: si tratta, infatti, del 30,3% dei tumori a carico del sesso femminile dalle rilevazioni del 2020. La notizia di un vaccino per combatterlo sembra utopia, una sceneggiatura scritta per un regista particolarmente ottimista. Invece, presto tutto ciò potrebbe diventare realtà ed è già una sperimentazione che potrebbe rivoluzionare la lotta e la prevenzione oncologica, con ottimi risultati già evidenziati.

Vaccino
Operatrice sanitaria (Immagine di repertorio) – Nanopress.it

Il cancro per molti è una chimera da scongiurare, combattere fino all’ultima cellula e oltre. Per molti altri è l’incubo che ha significato l’addio alle persone care e ha frammentato famiglie e generazioni. Per altri è semplicemente l’odio, e parliamo di chi deve combatterlo da sanitario ed è costretto ad alzare bandiera bianca. Per ultimi, altri ancora lo vedono come un nemico letale da estirpare con ricerca e prevenzione, dall’oblò polveroso di un laboratorio all’avanguardia, che fa un po’ laboratorio di Dexter. I ricercatori potrebbero aver compiuto un passo decisivo nella lotta contro il tumore al seno e alla base c’è ancora una volta un vaccino.

Il vaccino come metodo per la lotta contro il cancro al seno: la rivoluzione ha inizio

La parola vaccino dal 2020 ha assunto tutt’altro significato per gli italiani e per il mondo. Basta dire che con al fianco il termine Covid, inseparabili come fossero Socrate e Platone, è stato tra i termini più cercati sul Google negli ultimi 24 mesi. E spesso la sua somministrazione è uno spauracchio che spaventa mamme, padri, figli, nonni, zii e tutto il parentato in un ingrato controsenso per cui chi salva, in realtà, viene dipinto come il carnefice.

Non ce ne vogliate, ma per noi il vaccino contro il Covid è solo uno dei tanti e, pensate un po’, neanche il più importante. Vi citiamo un nome e un cognome che più britannici non si può: Edward Jenner. Per chi di voi stesse pensando che si tratti di un cantante pop, no, proprio no: è il padre della vaccinazione, o meglio dei vaccini. Alla fine del Settecento, però, si dedicò in maniera ossessiva alla lotta contro il vaiolo. Come la mela per Isaac Newton, penserete, e invece no, perché dietro c’è una logica ben precisa e ha portato a una rivoluzione per l’umanità e per l’immunità, che poi è un principio base della protezione e della cura. Si tratta della capacità dell’organismo di reagire e resistere all’attacco di agenti patogeni. E insomma, questo Jenner, dai capelli lunghi e un po’ mossi, il viso dai tratti morbidi e curioso come solo un naturalista può essere, ha introdotto per la prima volta un vaccino, quello contro il vaiolo. E ha funzionato.

Avete presente la sensazione di sentirsi tirare la pelle? Ecco, è come un pizzicotto e neanche troppo forte in molti casi, ma che prepara il nostro corpo alla guerra contro determinate malattie infettive, alcune delle quali potenzialmente letali per ampie fasce della popolazione. Entrando un po’ più nel dettaglio, si tratta di un intervento che per definizione è preventivo e stimola il sistema immunitario alla produzione di anticorpi. Se la si vede in quest’ottica, l’esposizione all’agente infettivo diventa una fase fondamentale per conoscere il nemico, le sue mosse future, per arginarlo fin dalle prime mosse della volta dopo.

Vaccino
Vaccino (immagine di repertorio) – Nanopress.it

Al di là delle lotte di parte, dei fobici degli effetti collaterali, il vaccino è da secoli l’arma preventiva per eccellenza contro le malattie infettive e in molti hanno iniziato a pensare di stimolare l’immunità attiva anche per combattere alla radice molte e differenti patologie, con risultati alterni. A Seattle, quella terra piovosa, umida e che sa essere anche un po’ triste, però, hanno deciso di metterci del loro e i risultati non sono affatto scarsini.

Quei cervelloni circondati da acqua, montagne e foreste sempreverdi hanno messo a punto un vaccino a Dna per prevenire il cancro al seno o almeno quello è l’obiettivo. Avete presente il libricino delle ricette di vostra madre? Bene, in quella maniera, ma molto più ordinato. Questo vaccino a Dna, infatti, ha a disposizione le istruzioni per sintetizzare la proteina bersaglio, al contrario di quelli proteici che contengono già un pezzo della proteina target, quella che andrà attaccata. La produzione di questa proteina avviene da parte delle cellule che hanno assorbito il siero e che rispondono al suo ingresso. Nel caso del vaccino in via di sperimentazione per il cancro alla mammella, le istruzioni portano alla sintesi della proteina Her2, che gioca un ruolo chiave per questo tumore. Ma ci arriviamo tra poco.

Il tumore al seno non è solo un nemico ostile e letale, è come uno zombie di uno di quegli horror arruffati, fatti male e con poco budget. Uno di quelli che sembra finito, decapitato da uno degli eroi o dei buoni di turno e, invece, quando nessuno se l’aspetta, si ricompone come nulla fosse e torna all’assalto. E fa paura. Il cancro al seno, infatti, ha un tasso di recidiva altissimo: dai dati emersi nel 2017 da una metanalisi condotta su circa 63mila pazienti si è evinto che statisticamente potrebbe veder ricomparire il grande male il 41% nelle donne a più alto rischio, nell’arco di 20 anni dalla diagnosi iniziale. E il tasso di sopravvivenza, valutato nell’arco di 5 anni, è del 50%. Ma, tornando a quegli altri ancora, a Seattle e a quella sperimentazione, oggi è arrivata una notizia destinata a impattare – si spera – sulla vita nei prossimi decenni. E non è sensazionalismo.

La prima fase della sperimentazione ha dato risultati promettenti

Tante cattedre della comunità scientifica avranno iniziato a tremare, gli occhi di milioni di cittadini avranno iniziato a brillare, per poi crucciarsi per concentrarsi. Che poi è la smorfia un po’ scorbutica ed empatica, che l’occhio utilizza per mettere a fuoco ciò di cui importa. Sì, perché oggi è stato pubblicato un articolo pesantuccio su Jama Oncology. Siamo sempre a Seattle sì, ma non è una puntata di Grey’s Anatomy, per carità: un gruppo di ricercatori della Washington University ha testato un vaccino su una coorte di 66 pazienti per combattere il cancro al seno. In parole povere: la sperimentazione tanto attesa dal mondo della scienza ha avuto il via.

Per farlo, sono stati selezionati dei pazienti che presentano carcinoma mammario in stato avanzato, il più aggressivo. Poteva essere un grosso buco nell’acqua e, invece, niente affatto. Gli studi di fase 1 hanno dimostrato, intanto, che si tratta di un vaccino sicuro e poi, soprattutto, che è capace di innescare una risposta immunitaria massiccia contro Her2, una proteina chiave per il tumore, tanto che è stata riscontrata nel 25-30% dei carcinomi alla mammella e con numeri molto particolari.

Bloccare quel punto specifico è come togliere un tassello per interrompere un domino o, se volete pensarla così, come deviare il flusso di una cascata, almeno in parte. Insomma, il target point è definito, ecco. E non è una vittoria da poco. Guai, però, a cantare subito vittoria, perché si tratta pur sempre di risultati preliminari e di una fase che serviva in soldoni a valutare la sicurezza del prodotto. Ma avete mai sentito il modo di dire “chi ben comincia è a metà dell’opera?”. Ecco, in tanti hanno iniziato a parlare della sperimentazione in chiave ottimistica, definendola promettente e nutrendo grandi speranze sul suo esito.

Tornando alla proteina Her2 che – l’avrete capito – gioca un ruolo fondamentale in tutta questa storia, non è specifica per il cancro della mammella, anzi si trova in molte cellule sane, e quindi non tumorali. Gli scienziati, però, hanno dimostrato una sovra-espressione mostruosa della proteina che nel tumore al seno è presente cento volte in più rispetto a quanto avviene nelle altre cellule. Tanto è vero che, dopo aver accertato la presenza del cancro, si procede con una classificazione in base agli Her2-positivi, e in quel caso si combattono tumori più aggressivi e che tendenzialmente tendono a recidivare molto di più. E con una prognosi decisamente più negativa per i pazienti.

Her2, però, da grande nemico potrebbe diventare un paradossale autogol per il tumore, come un tiro scagliato dall’attaccante più forte della squadra che colpisce la traversa e torna indietro fino a finire addirittura nella porta amica. La proteina, dopo essere stata sovraprodotta, innesca una forte reazione immunitaria, che per la scienza potrebbe incredibilmente diventare un vantaggio. Alcuni pazienti hanno evidenziato proprio una risposta immunitaria mediata dai linfociti T, le sentinelle dalle spalle larghe della difesa dell’organismo che riconoscono e indirizzano verso la distruzione le cellule cancerose. L’attivazione dell’immunità citotossica, inoltre, ha portato a grandi risultati per le pazienti che l’hanno sviluppata, anche se si valutano le recidive. È stato provato, infatti, che i tassi si abbassano e, di conseguenza, l’aspettativa di vita aumenta.

Mary Nora L. Disis, direttore del Cancer Vaccine Institute proprio della Washington di Seattle, avrà gonfiato il petto e forse avrà avuto la voce un po’ strozzata, di quelle che non può nascondere l’emozione dei duri, nel pronunciare le seguenti parole: “I risultati della fase I ci hanno dimostrato che si tratta di un vaccino molto sicuro“. E con una certezza in più nella tascona del camice: gli effetti collaterali ci sono, ma niente di così tanto preoccupante, simili a quelli che percepiscono alcuni pazienti dopo il vaccino per il Covid o per l’antinfluenzale, ma prendetelo un po’ con le pinze nel secondo caso. Si parla di arrossamento, gonfiore nel punto in cui è stato iniettato il siero, qualche linea di febbre e brividi di freddo. Insomma, sintomi influenzali o giù di lì e li hanno evidenziati metà dei pazienti che hanno partecipato alla sperimentazione.

Gli scienziati sono anche riusciti a capire che la dose media è quella che dà le risposte migliori e l’hanno fissata a tre iniezioni da 100 microgrammi. Non siamo ancora nella fase in cui si valutano i dati relativi la reale efficacia nella lotta al cancro del seno, nella sua prevenzione e in un periodo a lungo termine. O almeno non nei numeri e nei dati concreti e mandati in pubblicazione. A Seattle, però, hanno evidenziato che le pazienti in cura da dieci anni, e che conoscono ormai bene, sono ancora vive, almeno l’80%. Insomma, la prognosi migliora e di tanto rispetto a quel 50% di mortalità di cui vi parlavamo poco sopra.

E ora, dunque? Non si sale tutti sul carro e neanche ci si ubriaca con la cicuta per non fare la fine di Seneca e Socrate. Si aspettano con ansia i risultati del trial di fase 2 e non ci vorrà ancora pochissimo. Infatti, nel Pacifico nordoccidentale sono ancora – e stanno andando anche veloce – al reclutamento dei pazienti. Disis, però, lo dice con convinzione: “Se i dati saranno positivi, avremo un segnale forte per passare rapidamente alla fase 3″. Parola d’ordine: speranza. Che nella lotta contro il cancro è spesso luce, vita, sopravvivenza e, purtroppo, illusione. Ma stavolta è un po’ di più: è il progresso che vince sul male, è la siringa che squarcia il lutto, l’abbandono, la solitudine, l’ingiustizia senza rassegnazione. È, neanche tanto banalmente, salvare delle vite. E così (non) si conclude la miliardesima puntata di Grey’s Anatomy, ma forse si apre una nuova fase della medicina globale.

Impostazioni privacy