Non sono passati neanche 10 giorni dalla strage al giornale satirico Charlie Hebdo e in Italia scoppia una polemica sulla tanto sbandierata “libertà di stampa e di espressione”. Il casus belli è la scelta del Corriere della Sera e della Rizzoli Lizard di pubblicare il libro “Matite in difesa della libertà” in cui sono raccolte le vignette di autori italiani e non fatte a ridosso della tragedia. Il ricavato, specifica il quotidiano, andrà alle famiglia delle vittime e a sostegno della redazione. Peccato che molte di quelle vignette sono state rubate dai profili social degli autori, pubblicate senza il loro consenso e in bassa risoluzione.
Dal web è partita l’offensiva degli autori, rimbalzata sui social con l’hastag #corrieresciacallo. Roberto Recchioni (qui e qui), Leo Ortolani (qui sotto), Giacomo Keison Bevilacqua alias Panda (qui), Alessandro Mereu alias Don Alemanno alias Jenus (qui sotto), hanno attaccato l’iniziativa. Sono state prese e ripubblicate opere, protette dal diritto d’autore, per una pubblicazione non autorizzata e per un’iniziativa di cui non sono stati messi a corrente.
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La scena mi è apparsa più o meno in questi termini. Vedi un banchetto di dolci caldi, appena sfornati da mani capaci con i primi ingredienti recuperati al volo, per dare sollievo (gratis) a chi è sotto choc e ha bisogno di qualcosa di confortevole (quelle vignette mi hanno dato un minimo di conforto in un momento che non pensavo di vivere). Rubi quei dolci, ancora caldi; li impacchetti con una confezione in alcuni casi pessima; li rivendi con il tuo logo sopra e spieghi che lo fai per beneficenza.
Ora, il Corriere si è scusato con gli autori. Il direttore Ferruccio de Bortoli ha scritto un tweet in cui si scusava con gli interessati e si prendeva tutta la responsabilità: la scelta di non chiedere a tutti il permesso era dovuta alla “fretta” di mandare in stampa il libro quando la notizia era ancora fresca.
Il giorno dopo, dalle pagine del quotidiano, arrivano altre scuse che scuse non sono. Si ribadisce che il ricavato andrà al Charlie Hebdo, che si pensava che “l’eccezionalità della situazione, il fatto che l’iniziativa avese uno scopo solidale e che il giornale non ricavasse nulla, bastassero a fugare ogni sospetto”. Sul volume poi, a pag 4 c’è la formula usata per sottolineare come si è “disponibili a regolare ex post ogni contenzioso”.
Queste mancate scuse non solo non risolvono la questione, ma la aggravano. Non si chiede scusa e basta per un gesto che lede ogni diritto d’autore: si cerca di far passare gli autori delle vignette come degli ingrati senza cuore.
Sia chiaro: il diritto d’autore vale sempre e in ogni caso, il lavoro di altri va riconosciuto e, nel caso, pagato. Gli artisti di solito donano le loro opere per beneficenza, non se le vedono rubare: devono essere informati perché magari possono non essere d’accordo per mille motivi e ne hanno tutto il diritto (proprio per quella libertà di espressione che fa scrivere #JeSuisCharlie a mezzo mondo).
Se per omaggiare dei vignettisti uccisi perché “blasfemi” (per citare un altro grande artista italiano, Gipi, alle Invasioni Barbariche, “un reato che nel 2015 si spera non esista più”), rubi le vignette di altri, vuol dire che della libertà di espressione non ti interessa molto. Inoltre, il libro è uscito senza le vignette ritenute offensive per i credenti: la scelta editoriale è solo del Corriere e potrebbe non coincidere con quella dei fumettisti che magari non vogliono legare il loro nome a quella che vedono come un’operazione di censura.
Stampare in bassa risoluzione delle vignette è il modo peggiore per rendere omaggio a chi ha perso la vita per i suoi disegni. Il fumetto è un mezzo espressivo in cui parola e disegno si compenetrano e la resa grafica è fondamentale: rovinare la qualità artistica di opere, tra l’altro cariche di significato emotivo per chi ha appena visto dei colleghi massacrati da terroristi, è davvero una pessima scelta, anche e soprattutto per beneficenza.
Il fatto che venga fatto dal più antico quotidiano italiano è un’altra aggravante. I fatti di Parigi rappresentano uno spartiacque soprattutto per il mondo dell’editoria. Sapere che nel 2015 in una grande capitale europea si può essere uccisi da fanatici, impone delle riflessioni sul ruolo del giornalismo. Non credo che Le Monde, El Pais o altri grandi quotidiani avrebbero mai fatto una cosa del genere e, in ogni caso, avrebbero chiesto scusa senza se e senza ma.
Spero che le grandi firme del Corriere e i tanti giornalisti che lavorano con passione ogni giorno, si siano almeno indignati nel vedere il loro giornale compiere un’operazione di così bassa leva.
Dire poi di avere fretta sembra un modo per accusare i lettori di avere una memoria corta, come se tra un mese ci si dimenticasse di quanto accaduto a Parigi. Quegli attentati hanno cambiato il sentire comune, la gente non ha una memoria labile e incostante.
Siamo di fronte alla classica pratica giornalistica di “battere il ferro finché è caldo”, di far leva sui sentimenti delle persone: se è vero che il Corriere non ha alcun ricavato economico, è anche vero che ne ha in visibilità e questo è fondamentale per chi fa informazione.
L’iniziativa sarebbe stata ottima se fatta con professionalità. Rimane l’amaro in bocca per un’occasione sprecata. Questa (non) è la stampa, bellezza.
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