Da quando le condizioni di salute di Alfredo Cospito, l’anarchico condannato per aver gambizzato uno dei dirigenti dell’Ansaldo Nucleare – Roberto Adinolfi – e poi per aver attentato alla scuola allievi carabinieri di Fossano, per altro non provocando né morti, né feriti, si sono aggravate, uno dei temi più dibattuti, in Parlamento e fuori, riguarda il 41 bis, il regime di “carcere duro”, come banalmente viene chiamato, introdotto, così come è ora, nel 1992 dopo la strage di Capaci, e a cui vengono sottoposti solo alcuni detenuti.
Il regime di 41 bis, diversamente da quanto si pensa, non è un modo per “punire” chi è mafioso o terrorista (o lo è stato in passato), ma, come era stato pensato nel 1986 quando è stato introdotto dalle legge Gozzini, per evitare rivolte in carcere e al di fuori, quindi aveva una finalità preventiva. Vediamo insieme cosa comporta e a cosa vanno incontro i detenuti che vengono sottoposti al regime.
Uno sciopero della fame che dura da più di cento giorni sta debilitando, portandolo quasi alla morte, l’anarchico Alfredo Cospito, condannato a dieci anni e otto mesi di reclusione per aver gambizzato, nel 2012, Roberto Adinolfi, dirigente dell’Ansaldo Nucleare, e poi all’ergastolo ostativo, ovvero una pena detentiva a vita che non prevede la possibilità di assegnare al recluso il lavoro all’esterno, la semilibertà e i benefici penitenziari, per aver organizzato un attentato, nel 2006, contro la scuola allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo, in cui non ci sono né feriti, né tantomeno morti.
Lo sciopero della fame, dicevamo, il 55enne pescarese lo sta portando avanti perché, da aprile del 2022, è stato messo in regime di 41 bis, il cosiddetto carcere duro, con la motivazione che, anche durante la sua permanenza nell’istituto di Sassari, abbia continuato a incitare i suoi compagni anarchici diffondendo scritti e opuscoli che invitavano a non rinunciare alla violenza. Ecco, è proprio in base a quello, ovvero alla pericolosità di un detenuto, che si decide di isolarlo dal resto dei carcerati. Ma non vale per tutti.
Il dispositivo, introdotto nel 1986 dalla legge Gozzini, prevedeva che “in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il ministro della Giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto“. Da allora, però, molto più di qualcosa è cambiato.
Dopo la strage di Capaci del 1992, quella in cui hanno perso la vita Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della sua scorta, il Decreto antimafia Martelli-Scotti ha aggiunto un nuovo comma alla legge, prevedendo il regime di carcere per i detenuti reclusi per mafia.
La storia dell’istituto, però, non è finita a trent’anni, più volte, nel corso degli anni, i legislatori hanno messo mano all’articolo della legge sull’ordinamento penitenziario, che dal 2002 interessa non solo i mafiosi, ma anche i detenuti per terrorismo o altri reati, come i delitti per la riduzione o il mantenimento in schiavitù o servitù, per la prostituzione minorile, per la pedopornografia, il delitto per la tratta di persone, per violenza sessuale di gruppo, per il sequestro di persona, per il contrabbando di tabacchi e, infine, per associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di sostanze stupefacenti.
Lo scopo, dicevamo, è quello di evitare disordini dentro e fuori dall’istituto detentivo, e viene ulteriormente chiarito nel comma 2 della legge, che afferma che “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del ministro dell’Interno, il ministro della Giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4 bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente“. Non è, quindi, una punizione.
I detenuti che finiscono sotto il regime del carcere duro sono costretti a vivere in una cella singola e, di norma, hanno a disposizione due ore al giorno per socializzare: possono farlo, però, solo in piccoli gruppi, composti al massimo da quattro persone. I contatti con l’esterno e quindi con i familiari si limitano a un’ora di colloquio al mese, e vengono fatti con un vetro divisorio (a eccezione di quelli con minori sotto i 12 anni) e sono videocontrollati. Anche alle udienze, i detenuti in 41 bis possono partecipare solo in videocollegamento. Tutte le loro attività, per altro, sono sotto attento monitoraggio del Gom, il Gruppo operativo mobile, ovvero un reparto specializzato della polizia penitenziaria.
La durata massima del regime è di quattro anni, ma può essere prorogata qualora si intuisse che i contatti con le associazioni criminali, mafiose o terroristiche, dovessero continuare.
In Italia, secondo i dati del ministero di via Arenula aggiornati a ottobre, sono 728 i detenuti al carcere duro, ma non si tiene conto di Matteo Messina Denaro, che da quando è stato arrestato, il 16 gennaio 2023, è stato posto in 41 bis nel carcere dell’Aquila. Nel 2022, è stato disposto per 16 nuove persone, mentre per 84 il regime è stato prorogato. I numeri sono in calo rispetto all’anno precedente, che, al 31 ottobre 2021, erano 750, ma cinque di loro sono morti durante l’isolamento. L’età media di chi sta al carcere duro è di 58 anni, e i detenuti di età pari o superiore a 60 anni sono 340.
Ancora, di questi 728, solo quattro non stanno scontando una pena per reato di tipo mafioso, ma per terrorismo interno e internazionale e sono Cospito, appunto, Nadia Desdemona Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi, esponenti delle Br condannati per gli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi. Degli altri, 242 appartengono alla Camorra, 232 a Cosa nostra, 195 alla ‘ndrangheta, 20 alla Sacra corona unita, tre alla Stidda e gli altri 32 appartengono ad altre associazioni mafiose.
Non sono reclusi tutti nello stesso istituto penitenziario, sono infatti dodici le carceri che in Italia prevedono il 41 bis. Quello in cui è finito il boss mafioso latitante per 30 anni è quello che ne contiene di più, ed è anche quello che ha la sezione femminile (e che “accoglie” le dodici detenute al carcere duro tra cui Maria Licciardi, la famigerata “lady Camorra“). Gli altri sono a Milano Opera, dove era sta l’anarchico, Parma, Cuneo, Sassari, Spoleto, Novara, Nuoro, Roma, Rebibbia, Viterbo, Terni e Tolmezzo.
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