Non c’è niente di più terribile di una madre che toglie la vita al proprio figlio. Un gesto che ha suscitato negli anni, e che continua a suscitare, il pregnante interesse di psicologi, psichiatri e criminologi.
Nella convinzione sempre più crescente di tutti che una madre che sopprime il proprio figlio finisce con l’uccidere anche sé stessa. Nonostante la crudeltà del figlicidio, però, le madri assassine affascinano nel senso più macabro del termine. E spingono ad indagarne e a volerne conoscere le cause scatenanti.
L’ennesimo dramma familiare si è consumato due giorni fa ad Oristano dove Monica Vinci, 52 anni, ha ucciso a coltellate la figlia Chiara Carta che di anni ne aveva solo 13. La donna, poi, ha tentato il suicidio lanciandosi dal primo piano della sua abitazione. Resta oggi ricoverata in gravissime condizioni. Più di 20 sono stati i fendenti inferti alle spalle della figlia. Una crudeltà disumana.
L’arma utilizzata è stato un coltellino a serramanico, scagliato dalla donna mentre la piccola Chiara cercava di scappare nelle stanze della loro abitazione per mettersi in salvo. Senza esito. Perché la sua corsa è terminata in bagno. Dove è stata ritrovata in una pozza di sangue dal padre Piero Carta, agente della polizia locale, che era stato allertato dai vicini di casa. L’uomo non viveva più con Monica e la figlia da quando si erano separati.
La Vinci, accusata di omicidio volontario, da tempo aveva manifestato i disagi psichici, in conseguenza dei quali aveva anche recentemente avuto un ricovero.
Una famiglia, quella di Monica Vinci e Piero Carta, che si era disgregata da qualche anno. I due si erano separati e la figlia Chiara era rimasta a vivere con la madre. Monica era disoccupata e recentemente aveva avuto problemi di natura psicologica. Così, dopo che era rientrata da scuola, ha colpito la figlia con una serie di fendenti alla schiena. Inutile la corsa per salvarsi da parte dell’adolescente.
La donna, che fino a quel momento era stata una madre, dopo averla lasciata riversa a terra in una pozza di sangue, ha tentato di togliersi la vita.
Le mamme come Monica sono molto spesso donne che vivono in una situazione depressiva senza speranza, senza possibilità di ricevere aiuto da alcuno. Perché nella maggior parte dei casi non riescono a chiederlo.
La depressione, che sempre più spesso si sviluppa dopo il parto e poi tende a cronicizzarsi negli anni se non debitamente curata, è sicuramente uno dei lati più oscuri della maternità.
In generale, le cause scatenanti dei figlicidi, così come gli scenari psicologici e l’anamnesi di ogni madre sanguinaria, sono spesso molto differenti fra di loro. E ciò rende così complicato non solo prevedere di volta in volta di fattori di rischio. Ma anche cristallizzare in parametri standard i profili psicopatologici e le storie di vita di chi si macchia di un così terribile crimine.
In questo scenario, chiaramente, incide anche la cosiddetta familiarità psichiatrica di uno o più componenti. Per tale ragione, è anche possibile parlare di depressione estesa all’intero nucleo familiare. L’omicidio commesso da una donna, oltre ad essere in netto contrasto con la figura femminile, appare un drammatico ossimoro. Posto che la donna è vista fin dalle origini come protettrice della famiglia e portatrice della sopravvivenza della famiglia.
A complicare le cose, c’è un altro dato. Difatti, la diagnosi della patologia di cui si discute è frequentemente ritardata giacché la depressione suscita sentimenti di colpa e di vergogna. Parole che aumentano non solo la reticenza di chi ne è affetto rispetto alla possibilità di chiedere aiuto agli specialisti. Ma alimentano anche il disimpegno al richiamo di una madre disperata, sola e fragile.
Mettere al mondo un figlio comporta attraversare un periodo di grande vulnerabilità. Un periodo durante il quale aumenta il rischio di scivolare in patologie che colpiscono la psiche. Del resto, diventare genitori porta con sé una serie di conseguenze non sempre positive. Ciò perché si va incontro ad un riadattamento della situazione personale, familiare e dunque di coppia. In definitiva, qualunque sia la causa, l’uccisione di un figlio da parte di una madre oltre a rappresentare un abuso fisico costituisce un abuso emotivo rispetto a chi resta.
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