C’è il rischio dell’escalation: la Serbia manda i convogli militari sul confine bollente con il Kosovo, lo stato indipendentista. Pristina non molla la presa sulle targhe kosovare obbligatorie per tutti.
Il confine fra Kosovo e Serbia è al centro di una rinnovata tensione che potrebbe portare a una escalation molto seria. Da quando il Kosovo ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza nel 2008, gli attriti non sono mai cessati. E Belgrado non pare per nessun motivo intenzionata a riconoscere Pristina quale città di un altro Stato che non sia la Serbia.
Il ministro della Difesa, Milos Vucevic, cerca di placare gli animi: “Meglio negoziare per mille giorni che passare anche un solo giorno in trincea”, lo riporta la nota agenzia di stampa turca, Anadolu. Il video circolato ieri notte sui social, di una colonna di mezzi militari diretta verso il confine con il Kosovo, lo hanno visti tutti. Belgrado, insomma, sarebbe pronta a far il gioco duro, anche bellicamente, nel caso in cui si sentisse minacciata.
Lo scenario più cupo si avvale di dichiarazioni fresche e inequivocabili proferite dal presidente serbo Aleksandar Vučić, a cui si aggiungono, a dar man forte, le dichiarazioni del ministro dell’Interno. La situazione preoccupa talmente l’opinione pubblica da entrare tra i trend topic di Twitter con il video della cospicua colonna di mezzi militari diretta verso quella che è ritenuta dagli esperti come la seconda zona a maggior rischio bellico in Europa orientale dopo l’Ucraina.
L’obiettivo, sempre dichiarato e mai smentito, è che non trapeli mai in nessuno (comunità internazionale inclusa) un’impressione errata: riprendersi simboli patriottici importanti come i monasteri ortodossi del Kosovo oppure la stessa Kosovo Poljie (luogo vittorioso della battaglia contro l’invasore turco, conosciuto come la Piana dei Merli), non è in maniera più assoluta parte di una questione caduta nel dimenticatoio della Serbia.
L’allerta c’è e in questi giorni è montata progressivamente a seguito della decisione di Pristina di imporre il fermo amministrativo (o una multa) agli automobilisti serbi in Kosovo, che non si adeguano a una legge autoritaria che impone di sostituire le vecchie targhe automobilistiche serbe con quelle locali.
Un ritorno all’attacco lì dove il dente duole, dopo la proroga offerta dal governo centrale kosovaro circa un mese fa. “Un’insistenza da parte di Pristina”, commenta la BBC, che sta complicando le relazioni del piccolo Paese di etnia albanese con i suoi alleati principali, vedi Unione Europea e Stati Uniti d’America. E gli alleati della Nato, va da sé, che tutto si aspettano fuorché una escalation proprio nella polveriera d’Europa.
A fine settembre il comandante generale del KFOR, Franco Federici, sorvolava in elicottero le zone attorno ai checkpoint di frontiera a Jarinje e Brnjak, dove si erano verificati i primi blocchi stradali e i tafferugli di sempre per la questione delle targhe. In quell’occasione la reazione della missione Nato, intervenuta con comunicato, fu repentina e decisa: “KFOR mantiene una imparziale e ferma posizione di allerta per gestire ogni possibile contingenza”. Insomma una dichiarazione degli alleati talmente chiara, da indicare a tutti, senza lasciare alcun ragionevole dubbio, quanto la situazione fosse già delicata.
Quella delle targhe è una faccenda spinosa, ma soprattutto identitaria e che si ripete da almeno 20 anni, insieme a una moltitudine di altre zizzanie degne di nota, come il riconoscimento in Serbia dei titoli di studio kosovari, dei passaporti, oppure, non troppo banalmente, il mancato pagamento delle accise sulla benzina da parte dei serbi in Kosovo. Il territorio abitato dai serbi nella regione indipendentista è una zona franca per molti aspetti, sia fiscali che meramente anagrafici, lo ripetiamo, da parecchio tempo.
D’altra parte, cedere sull’ideologia “Il Kosovo è Serbia” per Belgrado sarebbe come offrire al nemico un segno di debolezza. Una defaillance di politica estera che, poi, potrebbe essere mal interpretata dalla popolazione serba, che in grande parte ritiene illegittima l’indipendenza del Kosovo, e peraltro si informa in un contesto mediatico seriamente controllato dal presidente serbo.
Aleksander Vučić adesso la sua linea novembrina l’ha dettata, ordinando di “abbattere qualsiasi drone in entrata nello spazio aereo serbo”, così ha riferito il presidente ai media locali. Ma c’è un motivo di fondo che non va trascurato. I toni, in realtà, nell’ex capitale della Jugoslavia si sono alzati da quando si è tornato a parlare di Nato e di invasione dell’Ucraina.
I serbi non si sono dimenticati le bombe sul palazzo della Tv di Belgrado, lanciate nel 1999 con il beneplacito di una Nato che dava il via al suo nuovo corso di guerre motivate in nome dei “diritti umani”, e ben argomentate dall’allora primo ministro britannico, Tony Blair.
Il conflitto ucraino, poi, è stato accolto, quasi fin dal suo inizio, con grande clamore dalla far right serba e dai militanti nelle frange ultrà del Paese, tutti scesi insieme allegramente in strada a fare sgommate a bordo di macchine addobbate con la famelica “Z” scelta da Putin come marchio assoluto di guerra.
Il conflitto ucraino in Serbia è stato un pretesto per riaccendere la nostalgia mai sopita in una fetta di paese che vuole ‘riprendersi’ il Kosovo. Un’ipotesi rafforzata da una possibilità che vede Vladimir Putin come un potenziale alleato della piccola e indifesa Serbia. Oppure dagli scenari di un conflitto generalizzato a tal punto da pregustare una capatina a Pristina per metterla a ferro e fuoco in quattro e quattr’otto. Una deriva, di grazia, da sempre mitigata in virtù della presenza della Nato, che si prenota ormai per un lungo periodo di permanenza nel paese a etnia albanese, presumibilmente sulla stessa linea del modello cipriota, che si trascina con la Nato in casa ormai dal 1963. Gli alleati del Patto atlantico sono di stanza in Kosovo dal giugno del 1999, come dicevamo, tramite il battaglione KFOR (Kosovo Force), impiegato in operazioni di peace-keeping nel Kosovo principalmente abitato da popolazione di etnia albanese.
Ma è solo un lato della medaglia, perché a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la Serbia ha saputo volgere a suo favore gli effetti nefasti della guerra. Raro Paese d’Occidente a non imporre sanzioni a Putin, la Serbia, anche grazie all’esenzione dai visti, è diventata l’eldorado dei russi che fuggono dall’adunata alle armi suonata in gran fretta dallo Zar. Belgrado sta vivendo un suo periodo felice con i russi che portano soldi scambiando i rubli proibiti in bitcoin, affittando case e aprendo imprese tecnologiche o bar di tendenza.
La ‘Serb-Russia’ è un fatto conclamato da tempo anche sul profilo opposto della medaglia, Vladimir Putin in Serbia si reca spesso in visita al presidente Vučić, scambiando solitamente comunicazioni piuttosto amichevoli. Anche il suo omologo serbo sa bene come portare avanti il doppio gioco: “Difficile dover affrontare i sentimenti delle persone e le loro emozioni. Ma anche quando andiamo verso la Russia, non significa che abbandoniamo il nostro tragitto verso l’Europa”, diceva il capo dello Stato serbo nel 2018 in occasione di una visita di Putin.
Ma questa volta il gioco diplomatico di Belgrado pare ricalcare l’inimitabile arte di Boriz Tito, il leader socialista slavo, il solo che seppe unire sei nazioni differenti, e meglio di chiunque altro tenere una linea di politica estera al centro, bilanciata fra Nato e Unione Sovietica, accontentando tutti e scontentando tutti allo stesso tempo, ma tenendo fede alla pace nel mondo.
La corretta gestione del Sistema Tessera Sanitaria rappresenta un aspetto fondamentale per tutti gli operatori…
Il volto di una madre che ha perso una figlia racconta spesso più di mille…
Un silenzio solenne avvolgeva le strade, rotto solo dal suono cadenzato dei passi e dal…
Ci sono momenti in cui sembra impossibile mantenere la concentrazione. La mente vaga, le distrazioni…
La stagione fredda porta con sé molte domande sulla routine quotidiana, ma c’è un gesto…
Se c'è un momento in cui tutto sembra sospeso, è quando un atleta raggiunge un…