Cosa succederebbe se fossimo tutti vegetariani, se da domani improvvisamente smettessimo di mangiare carne e di conseguenza allevare animali per la macellazione? Un’ipotesi avanzata da alcuni studiosi e letta in luce positivista, di miglioramento complessivo dell’umanità senza eccezioni, dalla gran parte del mondo ambientalista. Ma è davvero così? Il mondo migliorerebbe di colpo se fossimo tutti vegetariani? Invero si tratta di una colossale ingenuità: oltre a non tenere conto delle problematiche economiche, delle ricadute sociali e occupazionali, e della perdita di identità culturali, questa ortodossia un po’ talebana sull’argomento assume il punto di vista parziale ed esclusivo dell’uomo occidentale, che vive nella società del benessere, proponendo uno scenario irrealistico sul futuro dell’umanità.
Cosa succederebbe se fossimo tutti vegetariani: l’impatto sull’ambiente
L’interrogativo su cosa succederebbe se fossimo tutti vegetariani si rivela più che altro interessante per capire l’enorme impatto che hanno i nostri consumi sul pianeta, più per la soluzione improbabile che propone per rimediare ad essa, e che dovrebbe più che altro invitarci tutti quanti a moderare il nostro egoismo. Un articolo pubblicato su BBC Future ha immaginato questo improbabile scenario, e ciò che è emerso è che se un vegetarianismo radicale porterebbe enormi benefici in ambito ambientale e sulla salute nei Paesi industrializzati, viceversa nei Paesi in via di sviluppo ci sarebbero effetti distorsivi, fortemente negativi in termini di povertà: è indubbio che l’industria alimentare, gli allevamenti intensivi con tutte le loro immani crudeltà, conducano ad un aumento dei gas serra di origine antropica, la scienza ha dimostrato da tempo come l’intera filiera produttiva dell’industria del cibo sia responsabile di circa un terzo dell’inquinamento atmosferico globale. Inoltre Marco Springmann, ricercatore all’università di Oxford, ritiene secondo i suoi studi che dire addio alla carne comporterebbe una diminuzione della mortalità globale del 6-10 per cento, per la riduzione di malattie cardiovascolari, cancro e altre patologie croniche, mentre la dieta vegetariana salverebbe 7 milioni di persone ogni anno, quella vegana 8 milioni.
Gli effetti negativi di una civiltà esclusivamente vegetariana
I dati scientifici sono indubbiamente un argomento favorevole ai fautori di una conversione ‘senza se e senza ma’ ad una dieta esclusivamente vegetariana, tuttavia questa visione non tiene conto che l’accesso alle risorse e gli habitat di vita sono differenti in maniera anche rilevante nella popolazione planetaria: per fare un esempio banale, ad un manager statunitense, che passa metà della sua giornata seduto, privarsi totalmente della carne non comporta certo le medesime problematiche che avrebbe un Inuit della Groenlandia, o un bambino di una tribù eritrea, per il quale avere un animale che produce latte e che si può macellare risulta spesso il discrimine tra la sopravvivenza e non. Inoltre se fossimo tutti vegetariani gli effetti di una dieta globale basata sulle medesime colture quali effetti avrebbe? 8 miliardi di persone che mangiano soia, seitan e ortaggi vari porterebbe ad un aumento indiscriminato delle colture per soddisfare i bisogni nutritivi in un pianeta sovrappopolato, e l’agricoltura intensiva non fa meno danni in termini di spreco di risorse energetiche e danni ecologici.
E poi come cambierebbe il rapporto tra uomini e animali? Lasciati liberi questi ultimi di (ri)popolare i territori occupati dall’uomo, senza regolamentazioni si verrebbero a ricreare conflitti mai sopiti, e la caccia indiscriminata, soprattutto contro certe specie che ancora oggi sono vittime di bracconaggio, esploderebbe inevitabilmente, senza contare che il gusto del proibito (cosa che diverrebbe mangiar carne in un modo total vegan) da sempre attira l’uomo come una forza incontrollabile, facendo presumibilmente esplodere macellazioni e consumo di carne ‘illegali’. Ecco perché essere tutti vegetariani rappresenta una visione non solo improbabile ma anche pericolosa, senza voler mettere nel piatto gli effetti disastrosi che la scomparsa degli animali da pascolo comporterebbe in termini di biodiversità e sull’economia globale, la perdita profondissima e lacerante di identità culturali, i danni economici tutt’altro che irrilevanti. E allora qual è la via di uscita?
La moderazione nei consumi come chiave per la sostenibilità
Per combattere i guasti prodotti indiscutibilmente dalla civiltà industrializzata sul pianeta, l’unica risposta logica e di buon senso, per quanto banale possa sembrare, è affidarsi alla moderazione come chiave per la sostenibilità: moderazione dei consumi innanzitutto, carne rossa in testa, ma anche nell’acquisto di prodotti di importazione, favorendo invece il biologico e il chilometro zero, che in termini individuali consentirebbe a ognuno di noi di fornire il proprio contributo al benessere della Terra. Questo non vuol dire impedire a qualcuno di andare a mangiare sushi, ma è evidente che se prima erano 100 milioni di giapponesi, ed oggi sono 3 miliardi di persone a mangiare sistematicamente pesce crudo, ciò comporta uno sfruttamento intensivo che danneggia la vita nei mari: un esempio semplice per capire come tra le distorsioni della globalizzazione vi sia anche l’uniformità del gusto dettato dalle mode, e lo squilibrio si è aggravato ancora di più con l’accesso al capitalismo di Paesi come Cina e India, che un tempo ne erano estranei. Se non vogliamo ritrovarci a mangiare insetti per salvaguardare il pianeta, dobbiamo imparare ad essere meno egoisti ed indifferenti: se ad esempio ci attenessimo tutti alle linee guida sul consumo di carne dell’OMS, ovvero una, due volte alla settimana al massimo per quelle rosse, si potrebbe già ridurre sensibilmente l’impatto ambientale dell’uomo, senza per questo diventare per forza tutti vegetariani. E se riuscissimo a convertire il modello industriale di produzione del cibo ad uno più biologico e sostenibile, la luce in fondo al tunnel sarebbe molto più chiara e risplendente.
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