Covid: a Boston alcuni ricercatori hanno creato in laboratorio una nuova variante

Un team di scienziati di Boston ha deciso di creare in laboratorio – precisamente al National Emerging Infectious Diseases Laboratories dell’università – una variante sintetica di Covid. Ovviamente questo ha dato il via a una serie di critiche, dubbi, perplessità.

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Laboratorio – Nanopress

Un team di ricercatori di Boston ha creato in laboratori una nuova variante di Covid – chiamata Omicron-S – derivante dal mix tra la primissima e la Omicron. Quello che hanno scoperto è incredibile, ma il loro studio ha generato non poche preoccupazioni.

Covid: il team di studiosi di Boston ha creato una nuova variante

Negli USA un team di scienziati ha deciso di creare in laboratorio – precisamente al National Emerging Infectious Diseases Laboratories dell’università di Boston – una variante sintetica di Covid. E la mente va subito al 2019, quando si diceva che in Cina fosse accaduta pressoché la stessa cosa, da cui poi era nato il virus, che aveva iniziato a fare il giro del mondo.

No, il fine degli studiosi statunitensi non è di dare vita a una nuova pandemia, ma di dimostrare qualcosa in più sul tasso di mortalità attuale del Covid.

In sostanza, quello che hanno fatto è creare un virus ibrido, composto dal cosiddetto wild type – che altro non è che il primissimo tipo che iniziò a girare ormai circa tre anni fa – e dalla proteina spike della variante Omicron, quella che cioè da mesi sta circolando ovunque per intenderci.

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Detto ciò, una domanda sorge spontanea: a che è servito tutto questo? E a questa se ne possono aggiungere tranquillamente altre: siamo sicuri che i benefici di studi simili siano superiori rispetto ai rischi? Cosa potrebbe accadere in futuro?

Lo studio, i risultati e le controversie

Andiamo con ordine. Innanzitutto l’assunto di base è questo: la variante Omicron è altamente trasmissibile, tanto da riuscire a contagiare anche chi è vaccinato con tutte le dosi, chi ha già contratto il virus in passato e così via. C’è da dire però che i sintomi, nella maggior parte dei casi almeno, sono meno gravi.

Il team della Boston University, quindi, ha cercato di comprendere quale ruolo giochi la proteina spike, che sappiamo essere mutata nel tempo e che è comunque sempre responsabile dell’infezione da Covid dal momento che determina come quest’ultimo si attacchi al recettore Ace2.

Per fare ciò, ha voluto isolare l’ultima variante del virus – la Omicron – e applicarla sulla primissima, quella che comparve a Wuhan già alla fine del 2019. In sostanza hanno creato un virus ibrido, come abbiamo anticipato, per capire se è la spike a determinare quanto ogni variante riesca ad aggirare il sistema immunitario e a determinare la comparsa di sintomi più o meno gravi.

Cosa hanno capito gli scienziati dallo studio? Omicron-S (l’ibrido ottenuto dal mix delle varianti) è decisamente più letale di Omicron, ma lo è comunque meno del Wild type.

Fermo restando che i primissimi test sono stati condotti sui topi, quindi ad oggi quella di cui parliamo è solo una sperimentazione arrivata alle prime fasi, i risultati comunque parlano chiaro: il tasso di mortalità di questa variante è dell’80%, quindi decisamente maggiore rispetto a quello della Omicron, che non aveva determinato la morte di nessun topo, ma maggiore della prima, che li aveva uccisi praticamente tutti.

Cosa significa questo? La proteina spike, secondo il team, da un lato potrebbe essere responsabile della capacità del virus di attaccare anche chi lo ha già contratto in passato oppure ha seguito l’iter di vaccinazione, ma dall’altro non lo è assolutamente della letalità delle varianti. La spiegazione del fatto che Omicron lo sia di meno rispetto alle precedenti insomma andrebbe ricercata in altre caratteristiche del virus.

Per rispondere alle altre domande, invece, lo studio sarebbe stato condotto con un livello di sicurezza 3. Considerando che il massimo è 4, non ci dovrebbe essere alcun rischio che il virus ibrido creato in laboratorio “esca” al di fuori di quelle mura e contagi qualcuno.

Nonostante questa consapevolezza, però, c’è ancora chi teme per quello che accadrà in futuro. A quanto pare, infatti, il team, prima di procedere con l’esperimento, non avrebbe concordato le sue intenzioni con il National Institute of Allergy and Infectious Diseases, che di fatto lo ha finanziato, ma che poi ha dichiarato di essere venuta a conoscenza del lavoro vero e proprio solo attraverso i media, dal momento che nella richiesta di finanziamento non vi erano spiegazioni dettagliate.

In teoria l’agenzia sarebbe dovuta essere interpellata ogni volta che viene condotto un qualsiasi studio che possa aumentare – in qualsiasi modo, senso, forma – il potere pandemico di un virus. Come riporta la testata Stat, gli studiosi avrebbero dovuto capire se il loro esperimento rientrava in quella categoria, cosa che a quanto pare non è mai avvenuta.

Emily Erbelding, direttrice della divisione di microbiologia e malattie infettive del Niaid, ha sottolineato anche l’importanza di leggere i risultato dello studio in modo corretto. Secondo lei, infatti, non è detto affatto che quello che è accaduto ai topi sarebbe accaduto anche agli esseri umani: le percentuali di letalità sarebbero potute essere diverse.

Inoltre un’altra considerazione è doverosa: stando ai risultati che abbiamo ad oggi – quindi basandoci esclusivamente sui test condotti sui topi e prendendoli per buoni e sicuri al 100% – quello che è emerso è che la variante Omicron-S rende il virus originale immunoevasivo esattamente come Omicron. Questo significa che lo avrebbe reso altamente contagioso. Cosa significa? Che se un virus può contagiare più persone, può comunque ucciderne di più in termini assoluti. Questa è questione più che altro di statistica, ma è comunque un dato che non si può non tenere a mente.

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