Luci blu che, alternatamente, illuminano le strade, posti di blocco nei punti nevralgici delle città e, da qualche tempo, perfino camionette dell’esercito che piantonano i luoghi ad alto rischio. Sono queste le misure di sicurezza che, disposte dalle autorità, siamo abituati a vedere nelle nostre città per garantirci sicurezza e tranquillità. Non sempre ci riescono, questo è vero. Ed è qui, ancora prima che altrove, che fallisce quell’accordo che, secondo la teoria del filosofo Thomas Hobbes, sta alla base dello Stato: l’uomo, lupo per gli altri uomini, rimette parte della propria libertà nelle mani delle istituzioni statali che, in cambio, gli garantiscono la sicurezza. O almeno ci provano. E ci provano anche tramite il presidio del territorio, proprio tramite quegli strumenti sopraelencati. E se il territorio è, invece, un territorio virtuale?
Un territorio virtuale, solo perché non è tangibile, non vuol dire che non esiste, ma soprattutto non è scevro da pericoli simili, se non più profondi, di quelli che si corrono nelle città. Anche in un territorio virtuale, infatti, l’uomo può essere lupo per gli altri uomini e, inoltre, le istituzioni hanno maggiori difficoltà a garantire quella sicurezza per cui l’uomo ha rinunciato a parte della propria libertà. A dire il vero, quando diventa cittadino di un territorio virtuale, spesso l’uomo pensa – erroneamente – di riacquistare molte di quelle libertà che, invece, nell’accordo con lo Stato ha perso, ritenendo di essere in un luogo non controllato dalla istituzioni. Così facendo, però, rende quel controllo ancora più difficile.
Innanzitutto un luogo virtuale non ha una precisa nazionalità e qualsiasi territorio, anche tangibile, senza nazionalità è difficilmente controllabile perché difficile è l’attribuzione del potere di controllo e di sanzione (il caso dei due marò italiani che hanno ucciso alcuni pescatori indiani in acque internazionali è un ne è un chiaro esempio).
Inoltre un territorio virtuale non ha dimensioni, vastità, fisicità e, per questo, è difficile stabilire entro quali limiti bisogna organizzare il controllo. Controllo che, peraltro, dev’essere anch’esso virtuale. Come si potrebbe mai immaginare una volante della Polizia pattugliare il web?
Sì, perché il luogo virtuale per eccellenza è proprio il web: esiste, lo frequentiamo tutti ogni giorno, ma non ha fisicità, spazio, limite e soprattutto non appartiene ad alcuna nazionalità. Proprio per questo sul web e sui suoi derivati, come i social network (primo dei quali sono stati i forum), ci sentiamo tutti molto più liberi di commentare, attaccare, criticare, insultare, ma anche dire o fare cose che nel territorio tangibile non faremmo mai e non solo per l’impossibilità di nasconderci dietro l’anonimato o nickname spesso improbabili, ma anche per la presenza di quel naturale imbarazzo che invece avremmo se fossimo “di persona”.
Molti sono gli esempi di come nei meandri del web si nascondano pericoli e illegalità che, più facilmente di quanto accadrebbe in un territorio tangibile, riescono a sfuggire al controllo delle autorità. Il cosiddetto deep web in primis, grazie al quale si riesce ad acquistare qualsiasi tipo di oggetto, ivi comprese armi, droghe, ma anche siti che vendono medicinali pericolosi (come possono essere gli eccitanti acquistati illegalmente dagli adolescenti per affrontare con maggiore tranquillità i primi rapporti sessuali) e soprattutto i siti che diffondono materiale pedopornografico, e spesso mettono anche in contatto pedofili e potenziali vittime, e il cyberbullismo.
Sono, infatti, sempre di più i casi di ragazzini vittime di attività di bullismo che si compiono proprio sul web e in particolare sui social, dove hanno anche una cassa di risonanza maggiore che nella vita “concreta”. E non sarebbe giusto dire “reale” visto che, a giudicare dalle conseguenze che spesso ha questo tipo di bullismo, è decisamente molto concreto (molte vittime sono arrivate perfino a suicidarsi).
Il cyberbullismo, oltre alla già citata maggiore cassa di risonanza che può vantare, risulta estremamente pericolo, perfino più del bullismo tradizionale, perché è più difficile da scoprire, visto che manca – anche in questo caso – l’esercizio di controllo da parte delle autorità. Perché, ad esempio, nelle scuole è prevista presenza di un bidello a ogni piano? Forse per controllare, fra le altre cose, ciò che gli alunni fanno all’esterno dell’aula? Anche quella è un’autorità che presidia un territorio, reale. E quel tipo di controllo dell’autorità sul web è molto più difficile da realizzare.
Certo molti diranno che è pessimista dover immaginare che l’uomo, senza un controllo, è necessariamente esposto a maggiori pericoli, che provengono peraltro dai suoi simili, e che con una efficace attività di educazione questo controllo potrebbe facilmente essere evitato. S’illuderà che l’uomo non è lupo per gli altri uomini.
L’inchiesta di Nanopress.it, che smaschera una potenziale compravendita online di bambini tramite i forum di alcuni importanti siti web spagnoli, è un’ulteriore prova di come sul web – e neanche in angoli poco visibili – possano verificarsi facilmente situazioni gravi e pericolose.
Questo vuol, quindi, dire che il web e i social network sono il male? Assolutamente no! Vuole piuttosto dire che è necessario che chi opera sul web faccia fronte a quest’oggettiva difficoltà che hanno le istituzione a esercitarvi un controllo, sobbarcandosene una parte degli oneri e delle responsabilità. È chi gestisce un sito web, un social network, una community o qualsiasi altro spazio virtuale all’interno di quel territorio virtuale che deve impegnarsi ad attuare tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza dei suoi utenti. E deve farlo per coscienza? Assolutamente no! Bensì, per garantire il miglior servizio possibile ai propri fruitori.
Probabilmente le misure adottate non saranno sempre sufficienti, è vero, ma esiste comunque un’evidente differenza fra la perfezione e il nulla. Anche le volanti, i posti di blocco e i piantonamenti posso fallire e spesso falliscono, ma non per questo vengono aboliti!
Facebook, il più diffuso e il più amato dei social network, ad esempio, ha delle strategie di riconoscimento automatico e perfino manuali di contenuti non idonei, offensivi e pericolosi, al fine di provvederne all’oscuramento. Non sempre queste strategie funzionano benissimo, questo è vero, ma almeno ci sono e fanno quello che possono, anche se per l’azienda comportano dei costi, come i software e il personale.
Un siti per adulti, invece, hanno recentemente introdotto un’importante funzione per chi cerca, all’interno del portale, il termine “stupro”: si apre un pop-up con scritto: “Se stai cercando questa categoria, probabilmente è tempo di consultare uno psicologo professionista” e, quindi, il link di un famoso portale di consulenza psicologica. Probabilmente nessun potenziale stupratore si lascerà convincere da quel messaggio, ma intanto i gestori del sito si sono preoccupati di attuare una forma di controllo verso contenuti potenzialmente pericolosi, sostenendo di essere “sostenitore della libertà di parola”, ma di non voler correre il rischio di contribuire a “diffondere la cultura dello stupro”.
La giurisprudenza, almeno in Italia, non prevede responsabilità degli editori per quello che pubblicano gli utenti, ma questo è sufficiente per non sentirci coinvolti? Bè se così fosse, forse sarebbe il caso di cominciare a prevederla qualche sanzione!
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