Il problema ultras nel calcio è lontano dall’essere risolto tanto da portare, negli ultimi anni, a scrivere pagine nerissime. Il 2007 rappresenta un anno drammatico con la morte di Gabriele Sandri, il ventiseienne disc jockey che perse la vita in seguito a un colpo di pistola esploso da un poliziotto in un autogrill, alle quali si aggiungesero Ermanno Licursi, dirigente deceduto su un campo amatoriale per sedare una rissa, e Filippo Raciti, ispettore di polizia che perse la vita in seguito ai violenti scontri del derby Catania – Palermo. Durante lo stesso campionato di Serie A, inoltre, morì anche il ventottenne Matteo Bagnaresi, un tifoso parmense investito da un pullman di sostenitori juventini.
Il problema ultras negli ultimi anni, purtroppo, ha scritto pagine nere impossibili da cancellare; in molti ricordano, infatti, Ciro Esposito, il giovane tifoso napoletano ucciso a Roma poco prima della finale di Coppa Italia tra Fiorentina e Napoli del maggio 2014 dai colpi di pistola di un tifoso romanista. Oppure l’ultrà napoletano che alla guida di una Renault Kadjar travolse e uccise Daniele Belardinelli il 26 dicembre 2018, durante gli scontri prima di Inter-Napoli. Particolare clamore aveva suscitato anche lo strano suicidio di Raffaello Bucci, ultrà della Juventus in stretti rapporti con la società bianconera, morto il 7 luglio 2016 dopo essere volato da un cavalcavia vicino a Fossano, in provincia di Cuneo. Quest’ultimo caso era collegato anche alle inchieste sulle inquietanti infiltrazioni criminali all’interno delle maggiori curve italiane, portate alla luce dal programma “Report” sull’infiltrazione ‘ndranghetista nelle curve.
Negli ultimi anni, il problema ultras nel mondo delle curve italiane ha subito una pesante trasformazione dovuta soprattutto a due fenomeni: la politicizzazione dei gruppi organizzati attraverso una strategia di infiltrazione di strutture politiche estreme extraparlamentari e l’ingresso di gruppi criminali nella gestione del business legato al controllo delle curve (biglietti, trasferte, diffusione di materiali legati alle squadre ed attività criminali quali lo spaccio di stupefacenti nelle curve). La politicizzazione delle curve è un fenomeno che, dai primi anni ’90, ha caratterizzato, in maniera diversa, quasi tutta la scena europea. In Jugoslavia, ad esempio, i prodromi della guerra che infiammerà la penisola balcanica nella prima metà degli anni ’90 trovano nelle tifoserie organizzate un importante bacino di risonanza. In Spagna, Scozia, Galles e Nord Irlanda le tradizionali rivendicazioni indipendentiste sono state veicolate attraverso il football mentre anche al di là del Mediterraneo, durante le cosiddette “Primavere Arabe”, le tifoserie più calde hanno preso parte alle dimostrazioni contro i regimi e sono state in prima linea negli scontri con le forze dell’ordine.
Se alcune formazioni politiche estreme hanno usato le tifoserie come strumento per fare pressioni in determinati ambienti, stessa cosa ha provato a fare la criminalità organizzata cavalcando e ampliando il problema ultras. Le motivazioni alla base sono principalmente due: l’enorme influenza politica e sociale che può avere il controllo di una tifoseria cittadina e, in secondo luogo, la crescita del business legato al mondo del calcio, il controllo nella gestione e nella rivendita di materiale – legato alle squadre come i biglietti ed il merchandising delle curve – che può permettere incassi di centinaia di migliaia di euro l’anno.
Quanto raccontato finora non vuole però dare ad intendere che le curve siano solo il coacervo di bande criminali o estreme. Centinaia sono gli esempi positivi lanciati dalle curve italiane: dalle raccolte di fondi a scopi benefici alle attività di volontariato per persone bisognose e/o a tutela degli animali. Inoltre la filosofia intrinseca al tifoso, fatta di amore indissolubile senza secondi fini, mal si sposa con la logica utilitaristica di chi vuole ingabbiarne la forza per altri fini. Inoltre, negli anni oggetto di questo cambiamento, il sistema calcio ha visto un abbrutimento non dovuto unicamente dalla parte violenta delle curve.
Alle domande di riforma il mondo del calcio ha provato a dare una doppia risposta che, al momento, non sembra portare i frutti di una soluzione lasciando il problema ultras irrisolto. In prima battuta si è pensato alla repressione sistematica: nonostante l’ampliamento della sicurezza video all’interno e nelle immediate vicinanze degli stadi, le tifoserie sono ancora oggetto di misure draconiane tanto che si deve fare una particolare richiesta alla questura per portare dentro uno stadio un tamburo, una bandiera o uno striscione. Questa burocratizzazione del tifo, fatta per disarticolare i gruppi organizzati, ha di fatto rafforzato invece alcune logiche di potere all’interno delle curve rendendo alcuni gruppi ultras gli unici titolari, illeciti, all’utilizzo di tali materiali.
L’altra soluzione adottata è stata la modifica del target di pubblico, attraverso strumenti di esclusione sociale: l’aumento delle tariffe dei biglietti, infatti, ha lo scopo di modificare la domanda in base alla volontà di sviluppo economico dell’offerta. Il calcio ha così lo scopo di diventare come gli sport made in USA, un grande spettacolo mediatico per far divertire con partite che offrono uno spettacolo, ma che di contro rischiano di costare troppo. Nel calcio entertainment, il sistema manageriale business-oriented, persegue il fine di una partecipazione di élite all’evento, al supporter adatto ad una audience family-friendly, principale fruitrice del mercato sportivo televisivo. Queste logiche mal si conciliano con l’effetto aggregante, interclassista e romantico del calcio che, senza il calore dei tifosi rischia di perdere forse la parte più importante dello spettacolo. Se non vogliamo che il calcio italiano veda gli epitaffi alla passione come già succede in altre realtà, dove sono presenti striscioni digitali, cori registrati e seggiolini colorati con le casacche firmate – in modo da dare l’impressione di essere pieni quando invece, in molti casi, sono terribilmente vuoti -, occorre affrontare seriamente il problema mettendo al centro della questione quello che è la soluzione oltre che il problema ultras: il tifoso.
Alla nascita del tifo organizzato ci fu la brillante intuizione di un allenatore, Helenio Herrera, celebre nella storia calcistica italiana e non solo, che disse: “L’Inter è dei suoi tifosi, i tifosi sono l’Inter” proponendo così alla dirigenza di far nascere un’organizzazione che coordinasse il tifo anche in trasferta. Ora che la figura del Supporter Liason Officer è diventata obbligatoria da tempo in alcune Federazioni (Svizzera e Germania su tutte) tanto da essere uno dei requisiti per l’ottenimento della Licenza UEFA, potrebbe rivelarsi uno strumento adeguato a risolvere il problema ultras. Il compito fondamentale di questi manager, infatti, è quello di intrattenere adeguate relazioni con il pubblico del club calcistico in cui presta il proprio servizio; l’obbiettivo principale è di rendere disponibile ai tifosi e agli appassionati un canale di dialogo diretto e bidirezionale con il club. Se questo ruolo ottenesse veramente il potere di cui necessita, molti problemi potrebbero essere risolti alla radice: fare di una personalità, o di un gruppo di persone, il punto di riferimento istituzionale per il tifo organizzato su svariati fronti dando modo di fornire informazioni, accogliere istanze di gruppi di tifosi, organizzare, ed aiutare nel finanziamento permetterebbe di fare luce su molte aree grigie.
Infine il recupero degli spazi di partecipazione popolare al calcio, con iniziative quali l’aumento esponenziale dei posti fissi gratuiti allo stadio riservati alle accademie calcistiche e per i meritevoli delle principali realtà scolastiche, oppure sconti forniti in base ai risultati emersi in ambito civile e sociale porterebbero un ritorno alle società calcistiche in termini etici e perfino economici. Finora una società senescente ha unicamente demonizzato l’irruenza giovanile, cuore e passione di questo sport, senza valutarne le ricadute esemplarmente riassunte in uno striscione di pochi anni fa: “Ci togliete dagli stadi, ci vedrete nelle strade”. Infatti il ricorso alla violenza fisica non è innato nel tifoso ma acquista valore negli anni come mezzo per garantirsi uno status sociale dentro una comunità come quella ultras i cui orientamenti la giustificano ed esaltano. Scardinandone le fondamenta e l’assetto sociale che la gestisce, si potrebbe ottenere una rivoluzione anche negli assetti comunicativi e nella sua stessa auto rappresentazione.
Se è vera l’affermazione fortemente euristica di Pasolini “Il calcio è un linguaggio con i suoi poeti e prosatori”, cambiare le regole del linguaggio porterà sicuramente a dei poeti più ispirati di quelli incentrati sul linguaggio della violenza e del business. Quello che si chiede al mondo del calcio, ai suoi protagonisti, ai suoi governanti e infine ai suoi sostenitori per risolvere il problema ultras è dunque semplice. Né si vuole far soccombere alla logica del profitto la passione, il folclore e l’amore degli appassionati di ogni estrazione sociale per la propria squadra, né si può accettare il sacrificio dell’amore per i propri colori sociali al colore estremo di una idea politica o a un interesse criminale. Perché non siamo più pienamente vivi, più completamente noi stessi, e più profondamente assorti in qualcosa, che quando partecipiamo ad un gioco. E spegnere la passione del gioco vuol dire spegnere noi stessi.
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