Non ci volevano di certo i casi di Dani Alves e Mattia Lucarelli, entrambi finiti agli arresti per violenza sessuale, per dimostrarci che il calcio è uno sport profondamente maschilista, eppure le due notizie, arrivate nello stesso giorno, dovrebbero comunque farci riflettere anche e soprattutto su questo.
Innanzitutto perché non sono dei casi isolati di calciatori che utilizzano la forza bruta, e sì è un eufemismo, per costringere delle donne a fare sesso – lo ha fatto Manolo Portanova, figlio d’arte e centrocampista offensivo del Genoa, per non citare che l’ultimo, ed è stato anche condannato – o anche, banalmente, nel non accettare un rifiuto di qualsiasi genere, anche solo con avance che vanno oltre la carineria. E quindi, seppur con le dovute differenze – perché non tutti sono così – rappresentano un modo di pensare rimasto forse a cinquant’anni fa, in cui le violenze erano solo un reato contro la morale, e non contro la persona, e in cui la donna doveva stare zitta, a subire, mentre loro, i maschi, i più forti portavano i soldi e il pane a casa.
I dati sui femminicidi dicono che anche fuori dal rettangolo verde, e in tutti i sensi, questa cultura profondamente patriarcale permea a tutti livelli la nostra società. E non siamo messi meglio se ci spostiamo nelle aziende, in cui di donne che sono arrivate a diventare manager ce ne sono così poche che rendono il confronto con gli uomini impietoso.
Su questo, poi, il calcio è forse il settore che è rimasto più indietro di tutti. Di presidentesse donne non ce n’è neanche l’ombra, l’ultima è stata Rosella Sensi, e non è più al timone della Roma da più di dieci anni, direttrici sportive neppure, c’è solo un’arbitra, in Italia, Maria Sole Ferrieri Caputi, che quando ha diretto la sua prima partita in Serie A ha avuto gli occhi di tutti puntati addosso, come se da un momento all’altro ci si aspettasse un errore per metterla alla gogna. Poi il suo dovere l’ha fatto, e si è celebrata oltremodo, come se arbitrare una partita del massimo campionato per una donna debba essere un’eccezione e non la regola.
In effetti, lo stesso sensazionalismo si è usato anche nel raccontare Stephanie Frappart, già abituata a palcoscenici importanti, che è stata la prima arbitra ad aver diretto una partita ai Mondiali, tra l’altro nella coppa del mondo giocata in Qatar e in barba ai quei diritti umani che vedono anche la donna come una reietta della società.
Sulla violenza, poi, in sé e per sé, si deve per forza fare un discorso a parte. Personaggi, molto più che persone, abituati ad avere tutto, che vivono in un mondo patinato in cui di sudato c’è solo la maglia dopo una partita, e a volte manco quella, in cui il branco (non il gruppo, non la squadra) è pronto a sbranare chiunque si metta un po’ di traverso, be’, in quel mondo non è facile non credere che uno stupro, o anche solo un schiaffo a una ragazza (o a chi per lei), una battuta di troppo possa essere considerato al pari di un fallo, che ci si lamenta pure se il direttore di gara ci fischia contro.
Tornando ai casi concreti, pur arrivando allo stesso brutto, condannabile risultato, e nascendo probabilmente entrambi da un rifiuto che non si è saputo accettare, sono diversi per forze di cose.
Perché da una parte c’è un calciatore, come il terzino del Barcellona, che nella vita ha vinto tutto, e c’è arrivato, quasi per contraddizione, dal nulla, e che ora si sente come un dio che si è fatto uomo perché, appunto, è riuscito dove altri, troppi, hanno fallito, e un rifiuto non lo accetta. Dall’altra c’è un ragazzo di 23 anni, che assieme a un suo compagno di squadra, Federico Apolloni, anche da signor nessuno – è comunque il figlio di Cristiano Lucarelli – ha dimostrato che le donne non sono che pezzi di carne che si possono possedere come qualsiasi oggetto, e come qualsiasi oggetto si possono poi buttare, rovinare, soprattutto nell’anima. Un oggetto che spesso non si desidera nemmeno, si vuole solo dimostrare di poter avere, come se fosse uno status symbol.
E il calcio c’entra, per forza, c’entra perché lo stesso machismo si rende palese quando nel mondo del pallone si ha ancora paura di fare coming out, di mostrare le proprie debolezze, psicologiche e non. E tanto conta pitturarsi la faccia di rosso ogni 25 novembre quando ancora succede questo.
Perché sono sconfitte, che si vedono anche fuori dal campo di gioco quando le violenze diventano una prassi o qualcosa di cui vantarsi con gli amici. Ma sono sconfitte per il genere umano, e per chi le commette specialmente. Non calciatori, non sportivi, non uomini.
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