Li chiamiamo femminicidi o delitti passionali. La sostanza non cambia perché si tratta di uomini che uccidono mogli, compagne o ex compagne in quanto donne.
Donne che non vengono più viste né identificate all’interno di un contesto relazionale, ma si riducono a mera fonte di frustrazione e rabbia. Una fonte che sfocia in una quasi mai incontenibile furia sanguinaria. È successo ancora, questa volta a Tuoro, in provincia di Perugia. Lamberto Roscini e Francesca Giornelli, marito e moglie, sono stati rinvenuti privi di vita nella loro abitazione di via dei Sette Martiri, nei pressi del lago Trasimeno. Un caso di omicidio suicidio. Difatti, secondo quanto ricostruito dall’Ansa, Lamberto, cinquantenne, avrebbe prima strangolato la moglie Francesca, che di anni ne aveva quasi sessanta, e poi si sarebbe impiccato nel giardino della villetta di loro proprietà. Da quanto emerso dalle prime risultanze medico legali, il decesso della coppia sarebbe intervenuto nel pomeriggio di lunedì 27 marzo 2023.
Lamberto, come tutti i mariti sanguinari che poi si suicidano, si è verosimilmente posto in una condizione di rottura rispetto al dopo. Difatti, dopo aver strangolato sua moglie Maria, si è impiccato nel cortile della sua casa. Una rottura, quindi, ampiamente confermata dalla scelta di togliersi la vita. Un totale disimpegno emotivo assunto verso l’avvenire. E che, ancora una volta, conferma l’inutilità di inasprire le pene per contrastare la violenza contro le donne. E ciò perché chi si macchia di un simile reato, oltre a presentare fragilità in termini personologici, dimostra di non riconoscere valore né alla legge né ai suoi rappresentanti. Al contrario, evidenzia come la sua condotta sia stata unicamente animata da quello che in letteratura viene definito “tratto del possesso affettivo”.
Difatti, nella loro visione distorta, ciò che conta davvero è rivendicare l’orgoglio ferito e riaffermare il loro potere ed il loro totale controllo su quella che è stata per lungo tempo la compagna di vita. Poco importa cosa accadrà dopo, dato che la volontà subordinata è quella di compiere l’estremo gesto autolesionistico.
Neppure la modalità prescelta per l’uccisione è da considerarsi casuale. Lo strangolamento, infatti, sottolinea il dominio dell’uomo sulla donna. Un atteggiamento finalizzato ad evidenziare la preminente volontà distruttiva maschile di zittire definitivamente la donna. Di cancellarla e di eliminarla. Per sempre. Dunque, se l’inasprimento delle sanzioni da solo non basta a contenere il fenomeno del femminicidio, quali sono le ipotesi risolutive prospettabili? Innanzitutto, prima di intavolare una riflessione di questo tipo, bisogna partire dal presupposto che, in generale, la violenza contro le donne non deve essere solamente arginata. Ma deve essere sradicata. Per farlo, quindi, bisogna partire dalle scuole. Che devono attivarsi nel senso di educare al rispetto e devono battersi affinché si gettino le basi per concretizzare la parità di genere.
Difficile poter affermare il contrario. Complicato, cioè, ipotizzare che non ci siano stati dei campanelli d’allarme. Anche impercettibili. Magari non si erano verificati episodi di abuso fisico, ma è verosimile ipotizzare che in questo caso, così come in quelli analoghi che la cronaca troppo spesso esibisce in prima pagina, si siano registrati abusi di tipo psicologico. Tra le diverse forme di violenza ne esiste una, oltre a quella fisica, particolarmente potente e dolorosa: la violenza psicologica. Una violenza tendenzialmente sottile e sotterranea, invisibile agli occhi dei più. Spesso difficilmente riconoscibile anche dalla vittima stessa. Ma anche se si ha a che fare con un tipo di abuso che non lascia lividi né escoriazioni sul corpo distrugge profondamente l’autostima dell’altro. Inizia con critiche sottili, quasi impercettibili, che creano un clima di continua disapprovazione e possono distruggere lentamente ed in profondità una persona. La violenza psicologica è un maltrattamento mascherato, uno stillicidio continuo e progressivo di atteggiamenti volti a creare uno stato di continua subordinazione. Uno stato che induce la vittima ad occultare come meglio può la violenza subita.
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