[didascalia fornitore=”ansa”]Davide Astori mostra la maglia della Fiorentina[/didascalia]
Una domenica surreale. La notizia della morte del calciatore Davide Astori rimbomba sul web, nelle radio, in Tv. Un fulmine a ciel sereno alla vigilia del campionato di serie A. L’annuncio della scomparsa del capitano della Fiorentina viene reso noto poco prima dell’ora di pranzo. Davide è deceduto nella notte tra sabato 3 e domenica 4 marzo per arresto cardiaco. Un ragazzo di 31 anni, padre di famiglia, con una carriera affermata e tanti anni davanti a lui da vivere, non c’è più. Lo sconforto, mille pensieri, tante domande. La prima su tutte. Ma com’è stato possibile? Come può un calciatore, professionista da anni, morire nel sonno perché il suo cuore si ferma? La risposta non spetta certo a noi e saranno i referti medici dopo l’autopsia a chiarire forse meglio le possibili cause.
E nello sconforto i primi messaggi che si rincorrono. Rinviata la partita Udinese-Fiorentina. Anche Genoa-Cagliari, gara delle 12:30, è rinviata. Poi il comunicato della Lega Calcio. Annullata tutta la 27.a giornata del campionato italiano di calcio, derby di Milano compreso, che attendeva il tutto esaurito allo stadio Meazza con record di incassi inneggiati dai media proprio nella mattinata di domenica 4 marzo. Una decisione dettata dal buon senso, da una tragedia che ha colpito il calcio. Già, questo calcio che spesso viene vissuto come un’azienda. Una grande macchina di soldi (vengono stimati circa 3,7 miliardi di fatturato, l’11% del Pil del football mondiale). Un’industria che si ferma perché un suo “dipendente è morto”.
Ma questa industria che muove tanto denaro ha i suoi limiti. I limiti che portano tanti tifosi del calcio, che sono il principale “cliente” dell’indotto economico prodotto nel football, a non accettare sempre delle dinamiche che ruotano intorno a quello che viene definito comunque uno sport. E dove lo sport davanti ad una tragedia così toccante si deve fermare. “Per l’Italia e gli italiani il calcio non è solo passione, ma anche un importante volano di crescita economica, sociale e occupazionale”, spiegava un dirigente della Federcalcio nel recente passato. E viene da chiedersi. Ma quale azienda così importante, se considerata tale, si fermerebbe davanti alla morte naturale di un proprio dipendente?
Il tifoso, lo sportivo, l’essere umano, il buon senso… ferma il calcio, uno sport come gli altri… semplicemente uno sport dove uno sportivo, un calciatore non c’è più, è morto. Ma il “cliente” è disposto a perdere un servizio che paga e che contribuisce a far guadagnare milioni di euro ai calciatori e a questa industria che muove ricavi faraonici? Il problema ce lo si è posto. Perché qualche “cliente” si è lamentato. Perché fermare un’intera giornata di campionato? Perché non osservare un minuto di silenzio per la morte di Davide Astori, un professionista che poteva essere inneggiato proprio quella domenica sui campi di calcio e non interrompere totalmente il flusso di una macchina che produce denaro?
“The Show must go on” sempre e comunque? E’ morto Davide Astori, un ragazzo speciale, un “dipendente” della serie A. Rispetto per l’uomo e doverosa decisione di fermare il calcio. Ma qualcuno la domanda se l’è posta. Siamo tutti uguali davanti alla morte, o ci sono dipendenti che meritano rispetto e altri no?