Delitto di Cogne: Anna Maria Franzoni è una donna libera. Caso Chiuso.
«Amiche. è fermo il mio disegno: i figli, prima ch’io possa, uccidere e lontano fuggir da questa terra e non concedere che per l’indugio mio muoiano i figli di più nemica mano. È ch’essi muoiano ferma necessità. Poiché bisogna, io che li generai li ucciderò».
Queste sono le parole che Medea utilizza per privare del bene della vita i suoi stessi figli, sangue del suo sangue. Il mito narrato da Euripide ha come protagonista Medea, figlia del re della Colchide e sposa di Giasone, che uccise i propri figli dopo aver saputo di essere stata ripudiata dal marito per sposare la figlia del re di Corinto. La protagonista del mito di Euripide volle impedire a Giasone di avere discendenza. Così così come la quasi totalità delle moderne madri-Medea uccidono i figli per rivendicare la loro posizione in una relazione caotica e talvolta disfunzionale con il proprio “Giasone”.
Anna Maria Franzoni, però, è l’eccezione che conferma la regola. Perché diverse sono le ragioni sottese all’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi.
La realtà, solitamente, si lega a doppio filo con il mito. La mamma di Cogne era una donna sola, viveva in un paesino isolato e la sua vita era interamente dedicata alla cura dei figli. Sono passati ventuno anni da quando si è macchiata di quel terribile crimine.
Il 30 gennaio del 2002 è è entrato nelle pagine di cronaca nera più inquietanti che la storia italiana ricordi. Una donna, una giovane madre.Lei, e solo lei, Anna Maria Franzoni, uccideva il figlio Samuele Lorenzi di tre anni. E lo faceva fracassandogli il cranio nella loro casa di Cogne, in provincia di Aosta. Le immagini degli schizzi di sangue sul pigiama, sugli zoccoli e la camera da letto dove si è consumato l’aberrante crimine, sono state sbattute nelle prime pagine di tutti i giornali ed entrate dritte dentro le nostre case. Per anni. La donna, sostenuta dalla famiglia e dal marito Stefano Lorenzi, si è sempre proclamata innocente.
Non solo nelle competenti sedi giudiziarie. Ma anche nei più svariati salotti televisivi. «Mi aiuti a farne un altro?», aveva chiesto al marito mentre gli operatori sanitari tentavano di rianimare il piccolo Samuele. Una circostanza anomala in raffronto ad una madre che vede sotto gli occhi morire il figlio. Ma facciamo un passo indietro.
Erano le 08:28 di quel maledetto 30 gennaio quando al 118 arrivava la chiamata di una mamma disperata. Una telefonata in cui si annunciava che il figlioletto di tre anni non respirava più e vomitava sangue. Immediato il trasporto in ospedale. Inutilmente. Perché quello che sembrava inizialmente essere un aneurisma si rivelava un delitto efferato.
I sospetti si concentrarono sulla mamma di Samuele, ma la sua famiglia fece fin da subito fronte comune. Non era lei il mostro. Non poteva essere lei.
L’autopsia, dal canto suo, non lasciava scampo. Samuele, tre anni, era stato ucciso con numerosi colpi alla testa sferrati con un oggetto contundente. Forse un mestolo di casa. Ed era stato massacrato da qualcuno che era nella loro abitazione.
Dopo quaranta giorni, la Franzoni veniva così iscritta nel registro degli indagati. Era il 14 marzo quando scattarono le manette ai suoi polsi. Dopo soli sedici giorni, però, il 30 marzo 2002, il Tribunale del Riesame ne ordinava la scarcerazione. Quella libertà conquistata sarebbe durata poco. Il 10 giugno del 2002, accogliendo un ricorso della procura di Aosta, la Cassazione annullava l’ordinanza del Tribunale. Insomma, una lunga vicenda che ha visto anche la nascita di Gioele. Esattamente un anno dopo la morte di Samuele.
Sebbene la Franzoni avesse scelto il rito abbreviato, è stata travolta da un lungo processo. Non solo dentro, ma anche fuori l’aula del tribunale. Come può una madre uccidere così brutalmente un figlio?
Il 19 luglio 2004 arrivava la condanna definitiva: 30 anni di reclusione. Il 27 aprile 2007, invece, la Corte d’Assise d’appello di Torino riduceva la pena a sedici anni in seguito al riconoscimento delle attenuanti generiche. Proprio la sentenza di secondo grado verrà poi confermata in Cassazione il 21 maggio 2008.
Nel novembre del 2008, inoltre, la disposta perizia psichiatrica confermava il rischio di reiterazione del reato negando alla Franzoni la possibilità di incontrare i figli fuori dal carcere. Poi la svolta. Era il 26 giugno 2014 quando, trascorsi appena sei anni di reclusione, Anna Maria Franzoni ottenne il beneficio della detenzione domiciliare. Anche se, in verità, già da tempo la donna aveva ottenuto la possibilità di lavorare esternamente al carcere.
Nel febbraio 2015, la Cassazione accoglieva il ricorso della Procura di Bologna contro la concessione della detenzione domiciliare. Ma il 28 aprile del 2015 il Tribunale di Sorveglianza decideva in autonomia di prorogare quest’ultima. Fino al 7 febbraio del 2019, quindi, la donna ha scontato quel che rimaneva della pena nella sua casa di Ripoli Santa Cristina.
Oggi, la mamma che nessuno ha perdonato, è una donna libera. Ha pagato il suo conto con la giustizia, beneficiando della buona condotta e di tre anni di indulto.
Nell’immaginario collettivo Anna Maria Franzoni è il prototipo di madre assassina. Ma lei non ha mai confessato l’omicidio di Samuele e mai lo confesserà. Non lo farà sia per le sue caratteristiche di personalità, avendo agito in preda ad un’escalation improvvisa di violenza e ad un inarrestabile dolo d’impeto, sia per non perdere la vicinanza della famiglia. Un appoggio sul quale Annamaria Franzoni ha sempre potuto contare. In particolare, quell’uomo, suo marito, con il quale ha voluto rimettere al mondo un figlio. E senza il quale non avrebbe potuto vivere.
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