Qualche settimana fa ha fatto gran rumore nel mondo scientifico e nell’opinione pubblica una ricerca statunitense che sostiene come la dieta vegetariana faccia più male al pianeta di un’alimentazione che preveda anche il consumo di carne: dal punto di vista dell’impatto ambientale, sostengono gli studiosi, la coltivazione degli ortaggi comporterebbe un consumo di acqua e di suolo, oltre che una conseguente produzione di gas serra, in misura nettamente maggiore, andando controcorrente rispetto a molta letteratura scientifica in materia. E allora dove sta la verità? Quale sistema alimentare garantisce un vero sviluppo sostenibile per l’umanità e la Terra?
La risposta al quesito è molto più complessa di come diversi media riportano: proviamo a riportare in dettaglio le diverse posizioni ‘ideologiche’ assunte dalla scienza in merito, e come, al netto delle differenze, il punto nodale, la criticità più urgente che riguarda un’alimentazione sostenibile per le prossime generazioni, non sia affatto dissimile in entrambe.
Ricerca Usa: dieta vegetariana fa male all’ambiente
Mangiare un’insalata è tre volte più dannoso che pasteggiare con la pancetta: a sostenere questa tesi in netta controtendenza sono stati i ricercatori della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, in uno studio pubblicato sulla rivista Environment Systems and Decisions: in base alle loro analisi infatti, la dieta vegetariana ha un impatto ambientale più pesante rispetto ad una onnivora. Facendo dei calcoli riguardanti il consumo di acqua, energia e produzione di gas serra, per la precisione i consumi energetici salirebbero del 38 per cento, l’acqua utilizzata aumenterebbe del 10 per cento, e infine le emissioni di gas serra del 6 per cento. Una delle ricercatrici, Michelle Tom, ha dichiarato ai media: ‘Ciò che è buono per la nostra salute non è sempre buono per l’ambiente, ed è importante che ne siano consapevoli quei decisori che elaborano le linee guida per l’alimentazione‘. Insomma una produzione industriale applicata ad un regime alimentare che preveda solo frutta e verdura, e al massimo il pesce, comporterebbe danni analoghi, anzi addirittura in misura superiore, rispetto al regime attuale che prevede anche il consumo di carne. Ma esiste una vasta letteratura scientifica che afferma l’opposto.
Dieta carnivora: i punti critici secondo la scienza
Sono state diverse in questi anni le ricerche scientifiche che hanno sottolineato i costi in termini ambientali di una dieta carnivora, o per meglio dire onnivora, ma in cui il consumo di carne rappresenta il punto più critico, considerando, secondo i dati della Fao, come la sua produzione sia aumentata 4 volte solo negli ultimi 50 anni, crescendo di 25 volte rispetto al 1800, a causa delle economie emergenti che hanno portato con sé anche nuovi desideri e necessità. Uno degli studi più attenti nello sciorinare dati sui costi ambientali del consumo di carne è stato il ‘Peak Meat Production Strains Land and Water Resources’ del Worldwatch Institute, il quale si sofferma tra le altre cose su alcune delle controindicazioni più vistose del sistema produttivo industriale, come l’abbattimento di foreste per espandere pascoli e lo spreco di acqua per abbeverare il bestiame. Un altro studio pubblicato su Nature Climate Change da un gruppo di ricercatori britannici delle università di Cambridge e Aberdeen, integra quello sopracitato sostenendo che di questo passo entro il 2050 supereremo qualsiasi livello di guardia riguardo la produzione di gas serra: entrambe le ricerche suggeriscono di cambiare dieta poiché ‘la deforestazione aumenterà le emissioni di carbonio così come la perdita di biodiversità e l’aumento della produzione di bestiame farà aumentare i livelli di metano‘, si legge ad esempio nella ricerca inglese.
I veri problemi: la filiera industriale e lo spreco di cibo
A leggere nel dettaglio le diverse posizioni ideologiche assunte dagli scienziati, entrambe sembrano convergere su alcuni punti in comune, ovvero la necessità di ridurre gli sprechi alimentari da un lato, e dall’altro rivolgono un atto di accusa contro la meccanizzazione e l’industrializzazione della filiera del cibo, necessaria per alimentare un pianeta sovrappopolato che galoppa senza freni verso i 10 miliardi di abitanti: tanti, troppi per quello che la Terra è in grado di offrire con le sue risorse naturali, tanto è vero che ogni anno trascorso consumiamo sempre prima le riserve annuali che il pianeta consente, danneggiando le future generazioni. Dare da mangiare a tutte queste persone significa foreste da abbattere per far posto ai campi agricoli da sfruttare massicciamente, così come allevamenti intensivi, con animali costretti a vivere tra indicibili sofferenze per soddisfare i nostri bisogni, significa consumo di suolo e di acqua, mentre le emissioni di gas serra sconvolgono il clima. E allora quale soluzione di fronte ad uno scenario del genere?
L’Expo di Milano avrebbe dovuto in teoria offrire delle risposte a questo interrogativo, rivelandosi invece solo un ottimo volano turistico ed economico per l’Italia, ma poco altro. Ma le idee comunque circolano da tempo: tornare ad un mondo più semplice ed essenziale, più vicina alla natura, è possibile grazie alla produzione biologica, potremmo dire ‘artigianale’ del cibo, mangiando i prodotti di stagione e non pretendendo di avere a disposizione sempre tutto 365 giorni l’anno. E rifiutare la globalizzazione del gusto, che uniforma ad ogni latitudine le abitudini alimentari, spesso lasciandosi traviare da mode e tendenze, incentivando invece il ‘chilometro zero’. E soprattutto che si metta fine all’iper-produzione, imparare a non sprecare il cibo, e a donare quello in eccesso ai poveri del mondo: che si opti per una dieta vegetariana o per una onnivora, forse la sola soluzione per trovare un equilibrio tra benessere personale e quella del pianeta consiste nel ripensare il nostro stile di vita, tutti indistintamente, rifiutando il comodo rifugio dell’indifferenza riguardo a ciò che portiamo ogni giorno nella nostra tavola.
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