Facebook al centro di un recente caso giudiziario a proposito della diffamazione. Un’importante sentenza della Cassazione ha creato infatti un precedente che potrebbe davvero fungere da spartiacque tra passato e futuro. Tutto è nato da un insulto pubblicato in forma anonima sul social network da parte di un maresciallo della Guardia di Finanza che aveva sostanzialmente scritto di essere stato “Defenestrato da un collega sommamente raccomandato e leccac**o“. Ed è proprio in questo ultimo insulto che è partita la rivalsa della “vittima” che si è rivolto agli organi di giustizia per diffamazione. Ma come, non è stato nemmeno nominato? Infatti era questo che aveva portato all’assoluzione pronunciata dalla Corte militare di appello di Roma. Peccato che la Cassazione abbia stabilito l’annullamento visto che l’insulto – pur essendo anonimo – era facilmente riconducibile a una persona specifica.
Insomma, in futuro occhio a ciò che si pubblica sul social network perché tutto ciò che scrivete potrebbe essere usato contro di voi, perché “status” canta. La Cassazione, con la prima sezione penale (sentenza 16.712) ha creato un precedente che potrebbe essere applicato d’ora in poi in un numeroso numero di casi perché capita davvero molto spesso di leggere sulla community online più popolosa del web riferimenti nemmeno tanto velati a persone con insulti più o meno pesanti. La sentenza spiega esplicitamenet che chi parla male di una persona su Facebook, anche senza nominarla direttamente, ma tuttavia andando a indicare particolari che possono renderla identificabile, andrà incontro a una condanna per diffamazione.
Bum, la bomba è stata gettata ed è esplosa. La prima vittima è dunque il maresciallo della Guardia di Finanza che si era sfogato sulla propria pagina contro il collega a suo giudizio con le spalle un po’ troppo coperte e un po’ troppo accondiscendente nei confronti dei superiori. Pensava che quello potesse rimanere come una frase urlata nel privato di una stanza di casa sua o al peggio una chiacchiera da bar. Ma non ha pensato che se si rende pubblico un elemento su Facebook o anche solo lo si condivide tra amici di amici, questo può raggiungere una platea davvero ampia. E diventa automaticamente un qualcosa urlato quasi al mondo intero.
Motivo per cui può essere passibile di condanna. C’è da specificare che oltre alla frase che abbiamo pubblicato, il maresciallo si era spinto oltre con un improperio (questa volta più pesante) nei confronti della moglie dell’insultato. La Cassazione ha dunque ristabilito ciò che il tribunale militare di Roma aveva già riconosciuto, per altro con tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata. Si deve insomma iniziare a considerare Facebook – e con lui anche gli altri social network come Twitter, Google Plus e compagnia bella – come una grande piazza, dove la privacy vera viene mantenuta solo attraverso i messaggi privati e non in quelli pubblici (anche se molto limitati nella condivisione). E se proprio ci si vuole sfogare, meglio puntare sui social non tecnologici come le chiacchiere da bar, magari meglio sottovoce.
A proposito di Facebook, vi ha stancato? Cancellatevi in cinque mosse.
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