Il 1° febbraio 1945 la storia volta pagina con l’estensione del diritto di voto alle donne in Italia. Dopo decenni di lotta, cade uno dei tabù più duri a morire e il nostro paese celebra, finalmente, il suffragio universale, prima tappa di un lungo percorso di emancipazione che dura ancora oggi. In oltre settant’anni da quella data la situazione si è ribaltata: se prima donne e uomini si mettevano in coda per ore pur di votare, oggi il calo dell’affluenza alle urne è tale da aver creato il cosiddetto “partito del non voto”. Mettere la x sul simbolo non è stato un esercizio di stile per chi ha lottato a lungo: godere degli stessi diritti di voto è la condizione essenziale per avere una reale parità.
Il passaggio decisivo nella storia del diritto di voto alle donne è quello del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, dal titolo “Estensione alle donne del diritto di voto”. L’Italia non è ancora una Repubblica ed è per questo che la firma è quella di re Umberto “Principe di Piemonte Luogotenente Generale del Regno” che ratifica quando deciso dal Consiglio dei Ministri del governo di Liberazione Nazionale con il decreto Bonomi. Su indicazione di Alcide De Gasperi (DC) e Palmiro Togliatti (PCI), la rinata politica italiana dà il diritto di voto alle donne con almeno 21 anni, a esclusione delle prostitute che lavoravano presso le famose “case chiuse”.
Per il voto passivo, cioè la possibilità di essere elette, l’attesa è più lunga: il decreto n. 74 datato 10 marzo 1946 stabilisce che le donne di almeno 25 anni possono essere elette a tutte le cariche politiche, raggiungendo così la piena parità dei diritti politici.
La data del 1946 è doppiamente importante: è in quell’anno che le donne votano in Italia per la prima volta (non a caso, si parla delle “donne del ’46” riferendosi alle prime elettrici italiane), non al referendum, come spesso si crede, ma alle amministrative del 10 marzo che registrano un’affluenza superiore all’89%. Fin dalle prime elezioni, le donne rompono il “muro di cristallo”, con due sindaci eletti in prima battuta: Ada Natali, prima cittadina di Massa Fermana, in provincia di Ascoli Piceno, per 13 anni, e Ninetta Bartoli, sindaco di Borutta, provincia di Sassari.
La lunga battaglia delle donne per il diritto di voto
Quello che a noi oggi sembra scontato è invece il frutto di una lunga battaglia che le donne hanno portato avanti per secoli. Se è stata la rivoluzione francese la prima a garantire il voto alle donne, per poi toglierlo, sono i moti delle suffragette in Gran Bretagna e negli Stati Uniti a dare la scossa definitiva: la loro eco arriva anche in Italia, smuovendo acque già agitate. I moti del ’48, l’anelito di libertà, per dirla alla risorgimentale, ma soprattutto la sempre maggior consapevolezza di poter aspirare alla parità, almeno nei diritti politici: sono tutti fattori che contribuiscono alla battaglia per il diritto voto, visto che lo Statuto Albertino, la prima costituzione del nostro Paese, ha escluso le donne dai diritti politici.
Nella seconda metà dell’Ottocento, l’associazionismo femminile acquista maggior forza. Nel 1881 Anna Maria Mozzoni, femminista e socialista di Milano, insieme a Paolina Schiff, fonda la “Lega promotrice degli interessi femminili” con l’obiettivo di promuovere il voto alle donne. Si scuotono le coscienze ma non basta: per essere incisivi bisogna avere un respiro internazionale e nel 1903 nasce il Consiglio nazionale delle donne italiane, affiliato all’International Council of Women (attivo ancora oggi): tra i nomi più noti c’è quello di Maria Montessori, l’educatrice che più ha rivoluzionato il mondo della scuola d’infanzia.
La battaglia è serrata. Per capire il clima di allora, è utile riprendere una sentenza del 4 agosto del 1906 della Corte di appello di Firenze in merito a un ricorso, riportata da Giulia Siviero de Il Post nella ricostruzione della storia del voto alle donne.
“Potrebbe avvenire che una maggioranza di donne venisse a formarsi in Parlamento, che coalizzandosi contro il sesso maschile, obbligasse il Capo dello Stato, scrupoloso osservatore delle buone norme costituzionali, a scegliere nel suo seno i consiglieri della Corona, e dare così al mondo civile il nuovo e bizzarro spettacolo di un governo di donne, con quanto prestigio e utilità del nostro paese è facile ad ognuno immaginarsi”.
Tra i tanti falsi miti sul voto alle donne c’è quello che riguarda l’epoca fascista, secondo cui fu Benito Mussolini il primo a dare diritto di voto alle italiane. La realtà è bene diversa. Salito al potere nel 1922, il duce promette di estendere il voto alle donne almeno alle amministrative, cercando più di ingraziarsi il momento Pro Suffragio che altro: tra l’altro, si rivolse agli uomini rassicurandoli che le donne avrebbero portato “equilibrio e saggezza”, iniziando così a costruire il mito della donna fascista, dea della casa, madre e moglie fedele e nulla più.
Nel 1925 mette mano a un disegno di legge che prevede il voto alle elezioni amministrative per alcune categorie di donne, cioè le eroine della Patria, madri o vedove di caduti in guerra e alle donne benestanti o istruite, ma l’apertura dura poco. La riforma podestarile, col passaggio dal sindaco eletto dai cittadini al podestà, scelto dal governo, datata 4 febbraio 1926, cancella il voto alle amministrative per tutti, donne comprese.
Ancora oggi nel mondo esistono paesi senza il suffragio universale, dove le donne non possono votare. Se il primo paese a estendere il voto alle donne è stata la Nuova Zelanda nel 1893 (anche se la Svezia diede diritto ad alcune categorie di donne già nel 1771), seguita da Russia (1917), Stati Uniti (1920) e Gran Bretagna (1928), l’ultimo è stato l’Arabia Saudita nel 2015. Non bisogna cadere nel pregiudizio per cui i paesi arabi o a maggioranza musulmana sono gli unici a non concedere il voto alle donne: tra i primi c’è infatti la Turchia che ha esteso i diritti politici alle donne nel 1934, mentre in Svizzera si è dovuto attendere il 1971.
A oggi sono due i paesi che non hanno il voto femminile. Il primo si trova in Asia ed è il Brunei, unico sultanato al mondo, che ha cancellato le elezioni per tutti, uomini compresi, nel 1962.
Il secondo si trova in Europa ed è il Vaticano. Entrambi i paesi sono monarchie assolute, il primo di stampo islamico (il sultano è capo politico e religioso e ha poteri esecutivi, legislativi, giudiziari e militari diretti), il secondo è una teocrazia elettiva. Il Papa infatti è capo politico ma soprattutto non è un semplice capo religioso, visto che per la dottrina cattolica il Santo Padre è il rappresentante di Dio in terra e viene eletto anche per opera dello Spirito Santo (quindi direttamente da Dio). Nella pratica è il Conclave a eleggerlo e i cardinali sono tutti uomini.
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