La disoccupazione giovanile in Italia non accenna a diminuire. In generale il tasso è arrivato al 13,6%, evidenziando una crescita di 0,8 punti rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. In riferimento ai giovani la percentuale, prendendo come punto di riferimento i ragazzi fra i 15 e i 24 anni, è arrivata al 46%. I dati sono più sconfortanti soprattutto se si analizza la situazione al Sud. Proprio qui nel primo trimestre del 2014 la percentuale riferita alla disoccupazione giovanile ha raggiunto il 60,9%.
A rivelarlo è stato l’Istat, che ha messo in luce come nel Mezzogiorno siano alla ricerca di lavoro 347.000 ragazzi, pari al 14,5% della popolazione. Nell’Eurozona la situazione andrebbe meglio, visto che il tasso di disoccupazione ad aprile è dell’11,7%, mentre a marzo era dell’11,8%.
Numeri che mettono i brividi e che sconfessano (speriamo solo per il momento) quanti ritenevano che, con il 2014, anche l’Italia sarebbe uscita dalla crisi economica e avrebbe imboccato la strada della ripresa e dell’occupazione. In questo contesto, però, c’è spazio anche per un paradosso: se i giovani disoccupati aumentano, allo stesso tempo sempre più aziende faticano a trovare manodopera qualificata e, così, molti posti di lavoro restano vacanti. A pagare è soprattutto l’artigianato.
Quando in un sistema economico aumenta il numero di giovani senza occupazione, di regola la colpa viene distribuita equamente tra crisi generalizzata del mercato del lavoro e governo incapace di valorizzare i talenti e premiare le aziende che investono. Si tratta di un ragionamento valido, ma che coglie solo una parte del problema, oscurando un altro fattore importante della disoccupazione giovanile: la lontananza tra scuola e lavoro, tra quel che tutti i giovani vogliono diventare e quel che il mercato specifico richiede nella realtà. Uno scostamento importante che provoca il paradosso sopra descritto: i giovani non trovano lavoro e le aziende non trovano lavoratori, il tutto nello stesso momento.
In un periodo in cui anche l’Italia sta scoprendo (con colpevole ritardo) il valore professionale di Internet, sembra quasi che il lavoro manuale sia stato declassato in una ipotetica serie B dei mestieri. L’artigianato, che per secoli ha portato avanti lo stivale, trasformando talvolta anonimi manovali in geni creativi, oggi viene snobbato dai giovani, che non apprezzano più i lavori di una volta. Colpa, forse, del sistema alla cinese che ha declassato il lavoro manuale trasformandolo in nuova catena di montaggio. Così, se negli Stati Uniti fiorisce il movimento dei ‘makers‘, che unisce tecnologia e manualità, in Italia assistiamo alla morte dei mestieri tradizionali. Tenuti in vita precaria, e questo è un altro segno dei tempi, solo dalla buona volontà degli immigrati che, molto meno snob dei giovani nostrani, non faticano a mettere da parte la laurea per sporcarsi le mani.
Sparisce l’artigianato
Non sono frasi campate in aria ma realtà supportate dai dati: se l’Istat ha fotografato un’Italia in cui gran parte di quel 42,3 per cento di giovani disoccupati è ormai sfiduciato e apatico, dall’altro lato la Cgia di Mestre continua a segnalare un paradosso. Ovvero l’esistenza di oltre 350mila opportunità di lavoro come panettieri, allevatori, tappezzieri, falegnami, saldatori, riparatori, sarti, pasticcieri. Lavori manuali che non piacciono ai giovani e che rischiano di sparire per successione mancata, dato che i vecchi artigiani presto lasceranno le loro imprese senza rimpiazzi. Eccellenze che spariscono perché tutti in Italia vogliono diventare manager, giornalisti, avvocati e professionisti di non si capisce bene cosa. E se Internet è una valvola di sfodo notevole per chi cerca lavoro, anche qui il ‘manuale’ viene rigettato: fioriscono presunti esperti di social media e mancano tecnici, programmatori ed esperti di software.
Il problema, come detto, ha radici molto profonde ed è evidente soprattutto nel mancato incontro tra formazione e impresa. Il Rapporto del Sistema Informativo Excelsior di Unioncamere e Ministero del Lavoro ha certificato una carenza di offerta nei profili di laureati in discipline scientifiche e tecniche (ad esempio i laureati in ingegneria elettronica e dell’informazione) e un divario che somiglia a un baratro nelle aspettative dei candidati rispetto alle domande delle aziende. Di conseguenza sono quasi 50mila i posti di lavoro in palio (più di 13 ogni 100 assunzioni programmate) per i quali le imprese faticano a reperire personale qualificato. Certo, un ragazzo che spende soldi e tempo per laurearsi vorrebbe lavorare rispettando la sua qualifica e le sue capacità. Ma d’altra parte un lavoro onesto non è sempre meglio di una disoccupazione senza speranza?
Il mercato dei beni di consumo sta mostrano un netto ritorno ai valori di una volta, quelli dei prodotti a chilometro zero e senza porcherie chimiche. Bastano esempi di successo come Grom e le piccole grandi imprese che sono ripartite dalla terra e dai suoi prodotti per certificare lo stato di salute di un settore. Eppure nessuno vuole più lavorare muovendo i muscoli. Forse sarebbe il caso di smetterla di dare la colpa alla crisi economica e a poteri terzi e di iniziare a rimboccarsi le maniche. Ammesso che i nostri giovani abbiano davvero voglia di lavorare.
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