Prima l’ok della commissione Giustizia della Camera. Poi il sì schiacciante dell’aula con 381 voti a favore, 30 contrari e 14 astenuti. Così è maturata la convinzione che al Senato il ddl sul divorzio breve, che riduce i tempi della separazione a sei o dodici mesi a seconda che il procedimento sia consensuale o contenzioso, possa finalmente diventare realtà.
L’ottimismo trova conferma anche nei risultati dell’ultimo sondaggio Eurispes: otto italiani su dieci sono favorevoli e, negli ultimi tre anni, le percentuali sono cresciute costantemente (dall’82,2% del 2012 all’attuale 83,5%), interessando trasversalmente tutte le fasce di età (l’86,1% tra i 18 e i 24 anni, l’83,1% tra i 25 e i 34, il 90,2% tra i 35 e i 44, l’88,1% tra i 45 e i 64 e il 70% degli over 65).
Eppure dire che, al Senato, lo scontro ideologico tra laici e cattolici potrebbe nuovamente affossare il provvedimento non è certo un azzardo. Innanzitutto perché il nostro non è ancora uno Stato laico. La secolare tradizione clericale ne ha fortemente condizionato l’autonomia al punto da convincerci che quella del divorzio breve sia una questione morale e non di diritti civili.
In secondo luogo perché le voci contrarie, capaci di orientare il voto politico, non sono né poche né di poco spessore: su tutte quella del cardinale Bagnasco, che nell’accorciamento dei tempi della separazione vede il rischio di un ulteriore indebolimento della famiglia, e quella di monsignor Galantino, secondo cui il divorzio breve sarebbe una vera e propria deriva culturale.
Infine perché, andando a ritroso nel tempo, i due più recenti tentativi di riforma raccontano di miseri fallimenti: quello del 2012, che ha visto il ddl approvato in commissione Giustizia, calendarizzato alla Camera, ma poi non approvato, e il precedente del 2007, naufragato proprio al Senato.
A questo punto bisogna solo augurarsi che, una volta tanto, il proverbio “Non c’è due senza tre” non valga.
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