Moltissime persone sono partite dall’Ucraina alla volta dell’Italia per cercare riparo. Qui, però, alcune di loro hanno trovato molto di più: sono arrivate qui tra lacrime, diffidenza, paura e hanno invece trovato una casa, una famiglia, un vero e proprio rifugio. Un cortometraggio ad opera di Carolina De’ Castiglioni racconta le loro storie di rinascita sì, ma anche di nostalgia per tutto quello che hanno dovuto lasciare alle loro spalle.
Le valigie delle persone che hanno dovuto lasciare l’Ucraina erano piene di cose materiali: vestiti, biancheria, alcune volte oggetti utili per potersi almeno dilettare in qualche hobby. In nessuna di loro, però, c’era spazio per i sogni: quelli tutti li hanno dovuti lasciare nelle loro case distrutte dalla guerra, nelle loro città, accanto alle famiglie da cui si sono dovuti dividere per poter sopravvivere. Arrivati in Italia, però, molti di loro sono riusciti a trovare una nuova prospettiva da cui guardare la vita, in cui vige la solidarietà: nel loro nuovo mondo a regnare sovrana è la generosità. Ma attenzione: le loro storie, riassunte nel cortometraggio Dodomu, a cura di Carolina De’ Castiglioni, non sono prive di malinconia, eppure la maggior parte ci mostrano quanto, nonostante tutti i problemi, possa essere “facile” trovare il lato bello in ogni situazione.
Ci sono storie che meritano di essere ascoltate anche quando vengono sussurrate e non sono urlate. Alcune non hanno neanche di forza di venire fuori da sole, ma devono essere spinte da altri. Ecco, tendere la mano a chi ha bisogno: questo è il fulcro di Dodomu, il cortometraggio realizzato da Carolina De’ Castiglioni, che narra le vicende di alcuni rifugiati ucraini in Italia.
Sì, perché ognuno di loro ha un nome che merita di essere conosciuto, un volto che merita di essere guardato, un passato – che probabilmente non tornerà mai più – un presente macchiato dalla guerra con una penna indelebile e un futuro incerto, che non sa né dove né quando potrà vivere.
Svitlana, Liuba, Oxana sono solo alcuni dei loro nomi, ma tutte le loro storie hanno un punto in comune: iniziano tra le lacrime e finiscono con una mano tesa, la stessa di cui parlavamo prima.
Perché in effetti è proprio vero: nessuno si salva da solo e la guerra ce lo sta insegnando ancora una volta.
La generosità non ha prezzo. Essere buoni, altruisti, disponibili con chi ne ha bisogno spesso richiede un minimo sforzo, ma porta la maggior parte delle volte al massimo risultato. Questo è quanto accaduto a Svitlana Ikachuk, scappata dall’Ucraina con i suoi figli (Dmytro e Yeva, rispettivamente di 5 anni e 7 mesi) che, nonostante lo scempio che i suoi occhi avevano visto, ha deciso di voler credere ancora nell’umanità e di voler ancora pensare che il bene possa vincere sul male. Si è affidata così a dei volontari che neanche conosceva, perché per lei la speranza era più forte della paura. “Avevo paura, non sapevo cosa aspettarmi da loro. (…) Non mi aspettavo tutta l’accoglienza che ho ricevuto. Quando siamo arrivati, i vicini ci hanno cucinato le lasagne e hanno regalato una bicicletta a mio figlio”: con queste parole ha raccontato il suo arrivo in Italia, segnato dalla riconquista della libertà, del sorriso, ma anche nella fiducia verso il mondo e chi lo popola.
Ma sia chiaro: fare del bene porta solo bene a sua volta e spesso aiutando gli altri ci troviamo ad aiutare inconsapevolmente sé stessi. Lo sa bene Andrej Rebesco, un ragazzo di Trieste che, insieme alla sua famiglia, ha ospitato la 19enne Angelica. La loro è quello che potremmo definire il tipico quadro di chi decide di fidarsi per poter fare in modo che l’altro possa affidarsi a lui, ma non senza timore e che poi alla fine si trova a doversi ricredere.
Inizialmente, infatti, i genitori del ragazzo stentavano a dare ad Angelica il codice dell’allarme e le chiavi di casa: forse non potevano credere al 100% nella buona fede di questa ragazza, di neanche 20 anni. Eppure l’averla accolta lo stesso, averle dato un tetto, una casa, una famiglia, un po’ di gioia, ha reso anche la vita del figlio più facile: “Per me questo è un periodo pieno di pensieri. (…) Ma quando la mattina Angelica mi saluta con il suo sorriso vero e sincero, il buonumore mi travolge. Sembra sia più lei ad aiutare noi che noi lei”. Ed è nell’ultima frase che è racchiusa tutta l’essenza della parola aiutare, che spesso ha a che fare sia con il dare che con il ricevere.
Una storia analoga è quella di Federica ed Emilia Quaranta, che hanno deciso di ospitare nella loro casa a Milano a due donne di 65 e 87 anni. Questa slancio di solidarietà ha aperto le porte ad altra solidarietà e il risultato è stata un’unione e una vicinanza mai vista prima: “Il supporto ricevuto dai nostri vicini mi ha commossa. (…) Ci hanno regalato vestiti, libri, cibo e, soprattutto, tempo”.
Eppure, sia chiaro, queste storie hanno tutte due lati: quello luminoso, fatto di condivisione, aiuti, apertura, ma anche quello oscuro, composto invece da rinunce, addii, incertezza nel futuro. Lo racconta Liuba Lysenko (sorella di Svitlana), che per arrivare in Italia ha dovuto rinunciare a un importante bando, al suo lavoro e a suo marito, con cui progettava di costruire una famiglia. Nonostante in Italia abbia trovato moltissimo supporto, niente e nessuno riesce a cancellare dalla sua mente quello che ha lasciato in Ucraina. Alle sue spalle c’è troppa vita che non potrà mai essere accantonata per nessun motivo al mondo.
La stessa identica cosa vale per Oxana Havrylovska, sposata da 28 anni, architetta e componente di una rock band nel suo Paese. A Kiev ha lasciato tutto e lo ha fatto solo per tutelare sua figlia Margo di 13 anni. Le due sono “partite solo con due zaini”: in quello della madre c’erano vestiti, biancheria e cibo, tutte cose pratiche, essenziali e indispensabili insomma, in quello della ragazzina, invece, c’era solo pennelli, matite e quaderni. La sua passione per il disegno, infatti, è sfrenata – e lo sanno bene i pavimenti e i muri su cui ha “espresso la sua arte” – e adesso l’Italia per lei potrebbe costituire una vera e propria opportunità: chissà che, quando sarà più grande, non riesca a studiare arte a Milano, come vorrebbe mamma Oxana – fermo restando che già pochissimi mesi fa ha esposto le sue opere in una galleria di Via Gesso, segno che quindi il Belpaese la sta aiutando davvero a far emergere al massimo le sue potenzialità – che a sua volta sta usando il suo tempo per studiare programmi utili per il suo lavoro da architetto, che riprenderà non appena potrà tornare in Ucraina.
Ma non sono solo le donne ucraine a non avere più una casa: lo insegna la storia di Anna Budakyan, dissidente russa laureata in lingue, che forse nel suo Paese non potrà tornare mai più. Si vergogna per questa guerra “fatta in nome dei russi”, pagata con le loro tasse, ma che in realtà pochissimi di loro vorrebbero (un sondaggio della Cnn ha affermato che il 65% della popolazione russa è contraria alla guerra). Anna, però, sa che non può ribellarsi, perché “la Russia è una dittatura” e al popolo non “è concesso esprimere liberamente” il suo parere.
Lampante l’esempio – riportato dalla stessa Budakyan – di una donna “che lavorava in comune e che ha protestato contro l’organizzazione di una festa per bambini. Sosteneva che la festa fosse ipocrita, siccome la Russia sta uccidendo migliaia di bimbi ucraini. La risposta? Sette anni di carcere”. E per comprendere la portata del fenomeno, basti pensare che, stando ai dati emersi nel sito indipendente per i diritti civili Ovd-Info, a marzo 2022 – quindi praticamente all’inizio del conflitto – c’erano stati già più di 4,500 arresti in circa 60 città diverse.
Tornando ad Anna comunque, per lei oggi è importante mostrare a tutti che molti russi sono contrari alla guerra: ecco perché lei – e altri suoi connazionali – spesso manifestano nella piazze accanto proprio al popolo ucraino. Eppure questo non sempre è capito. Come lei stessa ha raccontato, infatti: “Stavo reggendo un cartello con su scritto “Russia occupata dalla mafia” quando una ragazza ucraina mi ha fatto il dito medio. Non voleva che i russi fossero presenti alle manifestazioni”.
Del resto non è una novità: moltissimi ucraini da quando il conflitto è iniziato stentano a voler condividere tempo e spazio con i russi, considerati da molti responsabili per le azioni di Putin, tanto che addirittura molti non hanno alcuna empatia verso chi lascia volontariamente il suo Paese alla luce del fatto che loro, invece, di volontario hanno potuto fare ben poco e hanno dovuto necessariamente abbandonare le loro città – spesso distrutte – le loro case e i loro affetti.
Accanto ai russi che cercano di discostarsi dalla guerra e di aiutare – come possono – il popolo ucraino, ci sono anche tanti italiani che vogliono fare praticamente lo stesso. Un esempio è costituito da Clelia Lucenti e i volontari del Don Orione di Milano, che ogni giorno si adoperano per cercare di dare un supporto concreto ai rifugiati. Sia nei piccoli problemi quotidiani che in quelli più seri, loro ci sono, sempre pronti a sostenere chi non ha potuto scegliere come vivere e si trova oggi a dover capire come rendere quantomeno la sua vita degna di essere definita tale.
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